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martedì 25 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dono da Claudio Cordella



Buon giorno ma sopratutto BUON NATALE!!!

Il modo migliore di festeggiare il Natale con voi è sicuramente leggere un buon racconto, dedicato al Natale, prima di andare a scartare questo regalo è doveroso ringraziare l'autore che gentilmente ha collaborato allo speciale di quest'anno.





CLAUDIO CORDELLA è nato a Milano il 13 luglio del 1974. Si è trasferito a Padova dove si è laureato prima in Filosofia e poi in Storia per poi diplomarsi nel 2009 nel master in Conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio industriale. Ha collaborato per alcuni anni con il giornale free-press la Piazza e cura ancor oggi la rubrica Oriente vs. Occidente per la rivista Living Force Magazine. Ha scritto per la rivista tolkeniana online Endóre dei saggi comparativi incentrati sull'opera di J. R. R. Tolkien e sul fantasy orientale. Per Edizioni Scudo ha scritto il fantasy Il gioco del drago argento, inserito nel vol. 1 dell'antologia Mahayavan - Racconti delle terre divise, e Scaglie d'oro, apparso nel volume steampunk Vapore italico mentre una sua novella è stata inclusa nell'antologia Symposium (Edizioni GDS). È stato co-curatore con Alexia Bianchini dell'antologia D-Doomsday (CIESSE Edizioni), dedicata a tematiche di carattere apocalittico. È il vice direttore del web magazine Fantasy Planet (La Corte Editore) e collabora con la rivista online Speechless.

Ora vi lasciamo al racconto e vi auguriamo un felice e sereno Natale!! 


Il viaggio di Billy W. Graham, dal paesino di Scudder verso il Vecchio Continente, non era iniziato nel migliore dei modi.
Tanto per cominciare, a causa dell'ennesimo uragano che si era formato al di sopra del Golfo del Messico, il volo su cui si era imbarcato era stato dirottato nella direzione opposta, verso Los Angeles. Alla noia di tutte quelle ore vuote, gettate via nella sala d'imbarco passeggeri del terminal, si aggiunse ben presto l'ansia di essere finito in terra pagana. Da un certo punto di vista trovava ironico il fatto che sarebbe partito da quella
California infernale, infestata da hippy e atei liberali, solo per finire in quella strana penisola a forma di stivale popolata di papisti.
Certo, sapeva di essere un privilegiato in quanto cittadino del Regno del Cristo d'America, in cui la parola contenuta nelle Sacre Scritture era legge. Il Regno non era ancora una nazione in senso proprio, ma indicava un'ampia area geografica del Sud degli States, un tempo nota come Bible Belt, in cui i fondamentalisti protestanti, riuniti in una rinnovata alleanza all'insegna dell'estremismo cristiano di destra, avevano
conseguito un'indiscussa egemonia.
L'unione federale degli Stati Uniti, a differenza del passato, era diventata un qualcosa di più teorico che di concreto. Al di sotto di una democrazia di facciata e a una formale adesione al governo federale, si era
instaurata una concreta teocrazia. Ad esempio, tre anni prima in Alabama era stata lapidata a morte l'adultera ventiduenne Jennifer Massoli. Da tempo l'evoluzionismo era stato bandito dall'insegnamento, nelle scuole e nelle università, in favore del creazionismo. 
In linea di principio, Graham era consapevole che altrove le cose andassero in modo assai diverso. In Iran e in Arabia Saudita i governi facevano le cose giuste, ma in nome della divinità sbagliata, mentre altrove esistevano paesi privi di una qualsivoglia guida d'ispirazione divina. Quindi teoricamente sapeva cosa aspettarsi dalla California. Eppure, anche se si riteneva psicologicamente preparato, il disgusto che provò lo
colpì con forza. 
Prima vide il bambino. Allegro e vivace, correva su e giù con un pupazzetto in mano, doveva avere sì e no nove anni. Solo in seguito riuscì a scorgere, seduta poco lontano da lui, la madre del piccolo. Era una giovane donna, alta e bionda. In seguito arrivò un'altra ragazza. Capelli corvini, pelle color caffellatte,
portava tre grosse tazze di plastica con del tè caldo. Il bacio che le due si diedero, rapido ma per niente affatto platonico, gli tolse subito ogni dubbio in merito a quale fosse il loro rapporto tra loro. Dovette farsi forza per non urlare e chiedere l'intervento di un agente. Era ben consapevole di essere tra infedeli, lì nessuno avrebbe affidato il bambino ai servizi sociali e trascinato le due sgualdrine in un apposito campo di 
rieducazione. Per sua fortuna un'ora e mezza dopo Billy poté finalmente ricominciare il suo viaggio, lasciandosi alle spalle quei demoni.
Il resto della sua odissea verso la tenebrosa landa dei papisti procedette senza alcun inconveniente, riuscì persino a dormire.
Sognò il giorno dell'Ascensione, quando i veri credenti sarebbero saliti corpo e anima in Paradiso lasciando atei, eretici e pagani sulla Terra a subire il tormento dell'apocalisse.
Vide che un angelo dalle grandi ali, bianche e immacolate, era venuto a prenderlo. Una meravigliosa creatura angelica simile in tutto e per tutto a una donna. Avvertì distintamente la sensazione di un corpo nudo e caldo stretto al suo, avvinghiati assieme si perdettero nella luce paradisiaca del Cielo.
Quando si svegliò corse di volata alla più vicina toilette, accorgendosi con suo grande disappunto di essere venuto nei pantaloni. Non poté fare a meno di provare un forte disgusto per se stesso. Era stato contaminato da pensieri impuri! Dopo essersi ripulito alla ben meglio, sino a quando non atterrarono all'aeroporto di Fiumicino, continuò a pregare imperterrito a occhi chiusi. Giunto al suo albergo in pieno centro si fece una
rapida doccia e si cambiò d'abito. Poi corse a piedi, a rotta di collo, in direzione di Piazza San Pietro.
Seppure il colonnato del Bernini lo accolse in un caldo abbraccio luminoso, dal punto di vista di Graham quelli erano solo quattro marmi buttati lì alla rinfusa e illuminati da soffuse luminarie natalizie. Nella sua mente intravedeva di già i bagliori ultraterreni della Gerusalemme celeste e nessuna opera papista poteva competere con quello splendore. A fatica si fece largo tra la folla di fedeli accorsi per la messa della Vigilia officiata dal pontefice.
Non attese di raggiungere il cuore della piazza per agire, l'importante era che lui fosse lì, in quel luogo che era solo opulenza, sfarzo decadente e vanagloria. La micro-testata nucleare a fusione che gli era stata chirurgicamente impiantata nel corpo, un'arma sviluppata dai servizi segreti del Regno, generò in 600 nanosecondi un'ondata di 320 milioni di gradi, oltre che a una fortissima onda d'urto, radiazioni e un impulso
elettromagnetico dannoso per qualsiasi tipo di elettronica. 
Quando la notizia dell'attentato fece il giro del pianeta i grandi della Bible Belt, felici dello scopo raggiunto, portarono i loro seguaci nelle piazze a cantare inni e a gioire. 
Invocavano la Terza Guerra Mondiale, l'apocalisse termonucleare che avrebbe dato il via al ritorno di Cristo e alla salvezza degli autentici credenti dalla Valle di Lacrime. Erano ancora lì a salmodiare, agitandosi come drogati in crisi di astinenza, ululando al cielo da ore, quando i missili a testata nucleare multipla arrivarono.
Fu senz'altro il Natale più luminoso della storia. Dio non sembrò gradirlo affatto e non si scomodò a scendere su quel cumulo di ceneri radioattiva che per i fedeli del Regno doveva costituire il più gradito dei doni.

lunedì 24 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dono da Fabrizio Fortino


Ciao a tutti,

non potevamo lasciarvi a bocca asciutta proprio oggi ed è per questo che siamo qui e per augurarvi una buona vigilia di Natale abbiamo deciso di scartare con voi un nuovo pacco regalo che ci viene gentilmente offerto da...

 
Il tarlo della scrittura ha perseguitato Fabrizio Fortino fin dalla tenera età, ma tutti i suoi scritti in giovane età son o finiti nel cestino, sebbene siano rimasti nei suoi ricordi. Cresce cimentandosi in ogni forma d'arte: disegni, pittura, modellismo, lasciandosi contaminare da qualsiasi genere o stile, accogliendo con entusiasmo suggerimenti e consigli da chiunque sia disposto a dargliene. È in età adulta che la passione per la scrittura si fa pressante, provocando in lui il bisogno ossessivo di mettere su carta ogni sua immagine o pensiero che ruota intorno ad una vicenda ben precisa, in luoghi e tempi al di là dell’immaginario. Questo vorticare di pensieri porta infine alla realizzazione di Black Port, il suo romanzo d’esordio, la sua storia.


Buona lettura e BUONA VIGILIA DI NATALE!!!



Non che ci tenessi in particolar modo a passare la vigilia di Natale in famiglia, ma almeno, per quella sera, non avrei dovuto cenare in uno di quei squallidi ristorantini della boulevard. I contro erano vari, forse perfino troppi per giustificare la mia presenza in quella casa, ma per quella sera, e dico, solo per quella sera, ingoiai il boccone amaro. Ma del resto, come in ogni situazione ambigua (e non so dirvi quanto imbarazzante) che si rispetti, fu una telefonata a salvarmi dalle insulse chiacchiere di quella variegata marmaglia che tendo troppo spesso a chiamare “famiglia”. In fondo, contavo proprio su questo genere d’interruzioni fortunose che di recente, complice il mio lavoro, capitavano anche troppo spesso. 
Fu all'incirca tra la seconda portata di tacchino glassato e il brasato in salsa di mirtilli rossi che il mio cellulofono squillò con insistenza.
“Fulton” dissi con tono perentorio. Attesi che la voce dall'altro capo terminasse di vomitarmi addosso un fiume di parole di cui non capii altro che... Omicidio... Tähtikuja 1, FI-96930 Napapiiri.
Furono sufficienti quelle poche parole per farmi catapultare fuori di casa. I miei, tra la confusione e le infinite pietanze, non se ne accorsero neanche.
La zona era transennata da lunghe strisce bianche e rosse, del tutto simili a quegli odiosi bastoncini di zucchero che tanto andavano di moda da quelle parti. Le sirene multicolori dei mezzi del dipartimento danzavano con la miriade di lucine che illuminavano la casa a festa. Casa non era il termine appropriato. Come chiamereste voi una reggia da nababbi (Nababbi Natali in questo caso) con svariati ettari di terreno, piscine riscaldate, sale svago su ogni piano, fabbrica di giocattoli annessa e magazzini a perdita d'occhio? Reggia? Sì, il termine è appropriato.
L'occhio mi cadde sul recinto che costeggiava il lato destro della struttura. Una piccola folla in tuta bianca si accalcava su quelli che a prima vista sembravano corpi stesi al suolo senza troppa grazia.
Se la troppa grazia, poi, è sinonimo di smembramento, allora assume tutto un altro significato.
“Fulton, FBI...” dissi in tono neutro atteggiandomi nel mio completo scuro.
“Cosa ci fa il Fairy Boreau Investigation da queste parti?” chiese scocciato uno degli ematologi impegnato a catalogare quello che avrebbe fatto pendant solo con un tavolo da macellaio a fine giornata.
Lanciai al giovane uno sguardo poco amichevole e mi feci largo tra i nastri e le tute bianche.
“Ci sono tutte... sì insomma, tutte non è la parola adatta” disse lui.
“Lo vedo da me” risposi osservando senza troppo interesse i corpi sezionati di quelle che erano state nove renne.
“Rudolph, Dixen, Vixen, Comet, Dazzle...”
“Non ti ho chiesto un elenco”. Il ragazzo cominciava a darmi sui nervi.
Qualcuno mi chiamò a gran voce.
“Fulton, fottuto folletto dal colletto bianco!”
Quella voce. Mi girai verso il nuovo venuto. “Stufur” dissi senza troppo calore.
“Sapevo che il Boreau avrebbe finito per mandare qualcuno, ma non credevo che fossero così a corto d’idee da mandare te” disse ridendo.
“Come butta Stufur?” chiesi senza smettere di osservarmi intorno. C'era un bel macello nel recinto, e la storia non era di certo finita lì. Le tracce di sangue proseguivano fin dentro l'uscio.
“Ce n'è per tutti gusti. Vieni...”
Il piccolo folletto incartapecorito mi guidò all'interno della reggia. Come promesso, ce n'era veramente per tutti i gusti, anche se la musica non cambiava poi tanto.
I corpi di una decina di elfi giacevano a terra scomposti e rotti. Sembravano vecchi pupazzi ai quali un padrone stanco della loro compagnia aveva (con molto zelo ed efficienza) donato un ultimo sprazzo di attenzione. Un attenzione mortale.
Il vecchio Stufur inciampò in una delle teste che ingombravano il pavimento insanguinato.
Probabilmente quella di Pottaskefill (riconobbi il berretto colorato).
“Cacchio... come lo tolgo il sangue dagli stivali adesso” ghignò il folletto scalciando a vuoto.
Lo ignorai, cercando di farmi un’idea più precisa di quello che era capitato in quella casa.
“Opera del Grinch! Quello sporco bastardo è sceso a valle per augurarci il Buon Natale!” disse strofinando lo stivale contro un divano di broccato.
Memorizzai il concetto, ma la mia mente si rifiutò di immagazzinarlo. Il Grinch non era il responsabile di quel massacro. Troppa foga, troppo caos, troppo follia. Il Grinch, ammesso e non concesso che avesse avuto il coraggio di imbarcarsi in un'impresa punitiva di tale entità, si sarebbe preso più tempo per operare lo scempio. Avrebbe fatto le cose con tutti i crismi e probabilmente avrebbe dato anche una rassettata (lo conosco, tende a essere un perfezionista su queste cose) oltre a trascinarsi via il suo corpo steso a terra in decine pezzi macilenti.
Indicai la poltiglia verde a Stufur.
“Credo che gli sia difficile augurarci il Buon Natale in quello stato”.
Il vecchio folletto rimase a fissare inebetito quella melma verdognola che era stato il Grinch fino a poche ore prima.
“E allora chi dannazione è stato?” chiese senza più un briciolo di dignità.
“A chi appartiene questa casa Stufur?” chiesi con dolcezza studiata.
“Che domande mi fai” rispose con stizza, “tutti sanno di chi è questa casa. Lo so io, lo sai tu e lo sanno.... sapevano loro” disse indicando i cadaveri.
“Rispondi alla mia domanda”.
“Ma a Babbo Natale naturalmente”.
Sorrisi soddisfatto, ma ovviamente Stufur non colse i miei pensieri. Tipiche frasi come ‘stai pensando anche tu quello che penso io?’, con alcuni folletti non funzionano proprio.
“Che stai cercando di dirmi Fulton?”. Si avvicinò a me tanto da toccare il mio naso con il suo.
“Per farla breve, amico mio, l'unico corpo che manca in tutto questo casino è proprio quello del padrone di casa. Quindi...”
“Vuoi dire che è stato rapito dall'assassino?”
“No idiota. È lui l'assassino!”
Forse avrei dovuto adottare una tattica meno aggressiva. Forse non avrei dovuto minare a quel modo la sanità mentale (già provata) del vecchio folletto, fatto sta che un fiotto di vomito andò a zozzare il già lurido pavimento.
“Che diavolo stai cercando di dirmi?”
“Niente di più di quello che ho già detto” risposi.
“Cioè che....”
“Troviamo Babbo Natale e troveremo l'artefice di questo macello”.
Quello che seguì ve lo risparmio per decenza. Sappiate solo che dovetti fare appello a tutta la mia scorta annuale di calma per non aprire un bel buco slabbrato calibro 9 nella testa vuota di Stufur.
“Escluso” insistette, “Babbo non potrebbe mai… lui non…”
E’ buffo come certe situazioni già di per sé stravaganti, possano peggiorare in maniera ancora più grottesca in solo pochi istanti. Se in quei pochi istanti poi, un vecchio folletto disperato e incredulo, si mette ad aprire porte che nessuno degli agenti aveva avuto la compiacenza di controllare prima, allora tutto assume sfumature ancora più ironiche.
Una massa informe si scaraventò attraverso l’uscio troneggiando sopra il povero Stufur. I suoi occhi mi colpirono in particolar modo. Uno sguardo del genere l’avevo visto solo in occasione della caccia all’orco idrofobo della primavera di sangue di Tarsankagas.
Il grosso vestito rosso dal colletto di pelliccia era strappato e sporco; così come la folta barba bianca, ora chiazzata di cremisi e di qualcos'altro cui preferii non dare un nome.
Il frastuono colpì le mie povere orecchie a tal punto da dovermele coprire con le mani.
Babbo Natale torreggiava con in mano una rumorosa motosega che spruzzava sangue nebulizzato sul povero, e ormai in preda alla follia più nera, Stufur.
“Oh Oh Oh! Buon Natale!” gridò l’omone poco prima di schiantare la motosega sulla testa del folletto.
Furono le ultime parole che uscirono dalla sua bocca. Anche perché, quello che rimase della sua testa, bocca compresa, era ora sparso a terra in una poltiglia macilenta e insanguinata.
A me rimaneva in mano una pistola fumante e tanta amarezza.
“Niente regali per te Babbo” dissi in un filo di voce. “Sei stato troppo cattivo”.
 

domenica 23 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dono da Anna Giraldo



Buon pomeriggio a tutti,

manca pochissimo al Natale e noi siamo pronte a regalarvi un altro bel pacco, questo dono ci viene offerto gentilmente da...

Anna Giraldo, classe ‘72 vive da sempre in un paese della provincia di Mantova.
Dopo la Laurea in Economia e Commercio e il Master in Informatica gestionale si è occupata di consulenza informatica, attività che volge tutt’ora.
Al lavoro affianca la passione per la scrittura sbocciata senza preavviso nel maggio del 2008.
Con Casini editore ha pubblicato 436 nel 2011 e Thunder + Lightning nel 2012, i primi due capitolo della saga urban fantasy “del giaguaro”.
Scrive anche molti racconti che “spamma” sul web e in alcuni casi sono stati pubblicati anche in cartaceo.
I suoi fiori all’occhiello: Il cerchio - classificato tra i primi 10 finalisti al concorso nazionale Fantastique 2010 indetto dal Fantasy Horror Award di Orvieto, sul secondo numero della rivista digitale Altrisogni e nell’antologia del Fantasy Horror Award 2010.
Mr. J. Walker Jr. - terzo nella prima edizione del concorso Una penna per Poe, edito in un ebook gratuito.
Dea gattara - quinto posto al concorso nazionale Le quattro porte di Pieve di Cento e quarto posto al concorso per la seconda antologia di Braviautori, edita a dicembre 2010.
Joe il sicario – nell’antologia I bastardi senza storia in memoria di Giovanni Buzi (Il Foglio editore).
È curatrice di antologie digitali: “Quistello in cerca… d’autore” (progetto patrocinato dalla Biblioteca e dal Comune di Quistello, 2011) e “I Robertson” (antologia di Black Comedy per il forum Pescepirata.it, 2012).
Per un periodo nel 2009 si è dedicata alla recensione cinematografica sul sito www.videogirl.it, mentre, dall’inizio del 2012, ha iniziato la collaborazione come freelance con la rivista Tutto qui & Dintorni e con Fantasy Planet.
Fa parte del comitato organizzativo del San Giorgio di Mantova Fantasy.
Il suo blog: www.annagiraldo.altervista.org

Bene, non ci resta che lasciarvi scartare questo splendido dono.



Pro tanto quid retribuamus?

La S.V. è invitata al Get on the boat Christmas Party 24 dicembre 2012

HMS Belfast
More London Riveside
London

La nave salpa alle 11.30 p.m.
È gradito l’abito lungo.

L’Afternoon Tea a Knightsbridge è giunto al termine. La jam session raggiunge il culmine.
Adoro servire ai tavoli quando la gente si dirada e rimane soltanto qualche gentiluomo profumato di sigaro o
un’elegante signora dalle lunghe mani curate avvezze più al mazzo di carte del bridge che ai lavori di casa.
Turisti curiosi ci guardano dal vetro come bambini davanti al negozio di giocattoli.
È stato in un momento come questo, ormai più di tre mesi fa: un bell’uomo attempato, capelli e barba candida, come l’impeccabile completo di panno, mi ha messo tra le mani un biglietto di invito. Senza una parola.
“Strano”, mi dico. “Di solito lo fanno per avere qualcosa in cambio. Tornano a riscuotere, molto presto”.
Invece questo signore, il cui ritorno, devo ammetterlo, mi avrebbe lusingato, non si è più fatto vedere.
Vado alla festa. Per incontrarlo.
Ho avuto tre mesi per pensarci, eppure mi sono decisa solo oggi a cercare l’abito da sera. Sarà il Natale, ma la metro stamattina era sigillata di folla, e l’aria nelle vie dello shopping era elettrica.
Ho camminato sconsolata nella bava sferzante di dicembre ormai decisa a rinunciare.
Poi eccolo lì, nella vetrina. Di raso rosso, in decolleté, incantevole.
Ho speso tutti i miei risparmi per quel vestito e ora sono impaziente di indossarlo.

Spengo le luci in sala. Rimangono i dodici alberi di Natale pieni di luccichii.
Mi cambio nel retrocucina ed esco.
Amo Londra e le sue strade rutilanti di addobbi natalizi, silenziose solo per questa notte.
Ascolto i miei passi rimbombare sull’asfalto, mentre fermo uno dei rari taxi ancora in servizio.
Mostro l’invito. Il taxista alza appena il volume di un cd di carole natalizie e parte senza una parola.
Il lungo-Tamigi è morbido come le curve di una bella donna mentre lasciamo alle nostre spalle il Parlamento, Strand, il Waterloo Bridge e su, su, costeggiando i bordi della City. Più avanti la Torre di Londra, e giù a sud, lungo il Tower Bridge in direzione del nuovo grattacielo svettante sopra Southwark.
Un bel marinaio mi attende sulla banchina e mi accoglie come se mi conoscesse.
Mi augura Buon Natale scortandomi sulla passerella.
Altri due marinai con le divise ricolme di mostrine fanno la guardia all’ingresso.
«Benvenuta e Buon Natale, madam».
Mi indicano la strada e già un altro ufficiale mi sta porgendo il braccio per condurmi in visita all’incrociatore.
All’interno gli allestimenti del Museo della Guerra sono stati tolti, ovunque ci sono grandi schermi a led che inquadrano i luoghi più importanti della città: Piccadilly Circus, Covent Garden, Buckingham Palace, il 30 di St. Mary Axe. Sul ponte di prua, dinanzi a un lungo buffet, un quartetto di fiati e un pianoforte intonano un pezzo jazz con influenze latine.
Capannelli di gente elegante, sparsi qua e là, si intrattengono amabilmente nel gorgoglio dei motori già in movimento.
Alle 11.30 in punto la sirena annuncia la partenza. La passerella viene ritirata e la nave, lentamente, abbandona la banchina.
Mi precipito a poppa, dove la musica arriva come un sussurro portato dalla brezza. La nave avanza, lasciando indietro la costruzione sghemba del Municipio, mentre il fianco rosso del London Bridge saluta da lontano.
Ma cosa sono quelle luci?
Una si alza sopra la Hay’s Galleria, una è lontana, sull’altra sponda. E poi bagliori rossi e gialli nel cielo della City.
Mentre la nave passa sotto il ponte levatoio del Tower Bridge, realizzo che non ci sono rumori, nessun suono, a parte il russare tenue dei motori di bordo e quella musica per pianoforte e sax, in lontananza.
D’un tratto la scia della Belfast si increspa di lato.
Nel buio compare inquietante il profilo di una nave antica.
Procede veloce e presto entra nel fascio di luce del faro di poppa.
È la Golden Hinde! Riconosco il muso dorato di cerva che adorna l’albero di bompresso del galeone ormeggiato da anni in una darsena di Southwark.
Ma cosa sono quelle esplosioni di luce gialla e rossa sulle rive tutto intorno?
La navigazione si fa spedita: costeggiamo Canary Wharf con i grattacieli di vetro infinitamente alti, e avanti ancora. Il cielo si riempie a tratti di grappoli di scintilli nei toni del rosso, come fuochi d’artificio monocolore.
Stiamo doppiando Greewich quando, con la mano alzata, saluto la città ormai distante. Sto per rientrare, ma dietro di noi, accanto alla Golden Hinde, compare un maestoso veliero.
Non ci posso credere.
La Belfast, la Golden Hinde e ora il Cutty Sark! Perché sono salpate assieme per lasciare Londra?
Un brivido mi assale all’ennesimo sfavillio nel cielo.
Nella sala di controllo trovo bella gente, stuzzichini, champagne, la musica più forte. Signore ingioiellate, uomini in tight e ufficiali fanno un cenno di saluto e mi augurano Buon Natale.
Sui grandi schermi le immagini sono ferme, come in attesa dell’autorizzazione a ripartire.
Sosto dinanzi a quello che mostra il Big Ben.
Una sirena annuncia la mezzanotte.
Il vociare si fa più alto, l’orchestra intona un pezzo con brio.
Agli strumenti si è aggiunta una voce, distinguo a malapena le parole: “Get on the boat!”. Sali sulla nave!
Lo schermo ricomincia a funzionare.
Un giovane in divisa mi domanda «È sicura di voler vedere, madam?».
Ma non termina la frase e già il Big Ben si sta afflosciando su se stesso in un nugolo di polvere. Poi è la volta del Parlamento alle sue spalle.
Come impazzita mi giro per vedere altri schermi: le piazze stanno andando a fuoco, i monumenti esplodono, i grattacieli si accasciano. In silenzio. Qui c’è solo la musica: “Get on the boat!”.
Sali sulla nave.
Indietreggio, ma i monitor sono ovunque… allora fuggo via, sul ponte di poppa, dove le parole si affievoliscono e la presenza del galeone, e del clipper, dietro la Belfast, un po’ mi rassicura.
Fa freddo. Le mie mani aggrappate alla balaustra sono ghiacciate.
Le luci in cielo e i fuochi si sono diradati con la distanza e sono scomparsi del tutto.
La nebbia è fitta.
Una bella signora vestita di azzurro viene al parapetto, mi dice che stiamo per entrare in mare aperto.
Una sirena lo annuncia.
La nebbia si squarcia e un’enorme sfera luminosa si allarga in un punto lontano a ovest deformandosi, fino ad appiattirsi e stendersi, come un sudario, sopra la città.
«Che spettacolo!» esclama la sconosciuta mentre la musica continua senza sosta.
Sento un tocco leggero sulla spalla.
Mi giro.
L’uomo del biglietto a Knightsbridge, in divisa, con le mostrine da Capitano, mi sta sorridendo.
«Buon Natale, signorina. Sarebbe così gentile da concedermi questo ballo?».
martedì 18 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dono da Fiorella


Ciao a tutti,
eccoci tornate per riempire il fondo del vostro albero natalizio, un nuovo regalino per voi, ad allietare questa serata sarà una persona che da poco collabora con "Alla fine del sogno", ma sicuramente non è conosciuta per questo :P



Bene, senza tirare troppo la corda, andiamo a scoprire di chi si tratta...

Rigoni Fiorella nasce nel 1969. Nel 2010 un suo racconto breve è stato pubblicato sul libro 365
STORIE CATTIVE. A settembre 2011 la rivista digitale Altrisogni ha pubblicato il suo racconto intitolato DUE GIORNI. A dicembre 2011 è uscita l’antologia horror NEL BUIO edita da Dbooks dove è presente con il racconto ASPETTANDO LA MORTE. A fine dicembre 2011 è uscito il suo primo romanzo MINON, edito da Ciesse Edizioni, scritto a 4 mani con Alexia Bianchini. Nel 2012 ha partecipato all’antologia D-DOOMSDAY edita da Ciesse, poi è uscito in e-book il racconto horror LA RACCHIA edito da Sogno Edizioni.
Il suo sito: http://www.fiorellarigoni.it/


Ed ecco a voi il suo splendido regalo!


Il buio avvolgeva il maniero e il silenzio era totale.
L’eterea presenza svanì lungo il corridoio. Nessun rumore accompagnò la sua dipartita.
Appariva di tanto in tanto, vagando per le stanze del vecchio castello. La sua presenza inquietante rendeva la vecchia dimora un posto non gradito ai più. Eppure la bella fanciulla non faceva nulla di male, si limitava a percorrere le grandi camere senza proferire parola, almeno fino alla vigilia di Natale.
Il signor Bonti, l’anziano proprietario, si era abituato a vederla. Erano solo tre anni che vi abitava stabilmente, ma non credeva alle tante chiacchiere che la gente del paese faceva sul fantasma.
Non aveva mai udito rumori molesti, nemmeno le grida orribili che parevano funestare l’aria nella notte di Natale. Forse però ciò dipendeva dal fatto che il periodo delle vacanze natalizie lo passava in casa della figlia, in compagnia dei quattro nipotini. In verità questo era il primo Natale che trascorreva nella vecchia magione, ma la cosa non lo spaventava affatto.
La bellezza della giovane era notevole e lui se n’era invaghito. Il viso scarno e pallido dell’evanescente figura rispecchiava la tristezza che ne pervadeva l’animo. Si diceva fosse Angelica Monfredi, l’unica figlia del conte Monfredi, colui che aveva fatto costruire la vecchia dimora nel lontano 1850.
Era morta in modo orribile nel 1875 all’età di 20 anni, pochi giorni dopo l’annuncio del suo fidanzamento.
Il vecchio signore aveva cercato ogni informazione possibile sulle famiglia Monfredi. In particolare su Angelica, ormai diventata una presenza costante nella sua vita, ma non aveva trovato molto. Le notizie di quell’epoca erano frammentarie.
Nelle lunghe notti insonni aveva provato a interrogarla ma la sfuggente figura non aveva mai risposto alle sue domande. Il suo bel viso si era rabbuiato mentre svaniva per cercare di scappare alle insistenze con cui l’uomo la circuiva.
Il corpo di madamigella Angelica era stato trovato nella biblioteca la vigilia di Natale. La ragazza era seminuda. Le avevano legato le mani dietro la schiena e la sua pelle presentava ferite ovunque.
Il viso era stato orrendamente sfigurato e le era stata strappata la lingua. Chiunque l’avesse ridotta in quel modo doveva volerle un gran male.
La servetta che l’aveva rinvenuta era scappata urlando. L’avevano trovata mentre vagava sul sentiero che portava al paese dopo un paio d’ore. Aveva gli occhi sbarrati e recitava il rosario in preda alla disperazione.
Il padre non riusciva a darsi pace per l’accaduto. La madre invece era corsa in chiesa a pregare certa che la scomparsa dell’amata figlia fosse da imputare al diavolo in persona.
Il corpo di Angelica era stato ricomposto e adagiato nel suo letto per la veglia funebre. Il viso era stato celato da un velo scuro e le sue membra devastate erano state coperte dal suo più bell’abito.
Accanto al letto erano stati accessi quattro enormi ceri che spandevano la loro tenue luce donando alla stanza un aspetto spettrale. La gente del paese era accorsa al capezzale della poveretta più per curiosità che per altro. Quelli che entravano nella stanza si facevano il segno della croce e mormoravano preghiere in tono dimesso, ma i loro occhi saettavano in ogni dove incuriositi.
Le pettegole erano arrivate a frotte solo per sbirciare la vecchia dimora a loro proibita. Il loro brusio si levava nei corridoi come un fastidioso sottofondo.
Il conte, alterato dalla poca comprensione che denotavano le comari, le aveva raggiunte sbraitando e gesticolando.
«Andatevene!» aveva tuonato con il suo vocione. «Lasciate che l’anima della mia povera bambina lasci la propria dimora in pace! Tornatevene alle vostre case e rispettate il nostro dolore» le aveva redarguite mentre si avvicinava a grandi passi al capezzale della morta.
Al cospetto della figlia era scoppiato in un pianto amaro.
La sera era scesa presto, ammantando il maniero con la sua scura coltre. Solo i ceri erano rimasti accesi e il silenzio era divenuto greve.
L’uomo era rimasto a vegliare il corpo da solo. La moglie, rientrata dalla chiesa sul far della notte, si era tenuta in disparte, piangendo le sue lacrime lontana dalla figlia. Ma allo scoccare della mezzanotte l’aria era stata squarciata da un urlo raccapricciante. L’anima di Angelica si era librata sopra al letto e aveva preso a gridare a squarciagola, facendo rabbrividire gli abitanti della magione.
L’eterea presenza si era aggirata per la stanza volteggiando sospesa nell’etere. I lunghi capelli le mulinavano attorno al capo, mossi da una brezza invisibile, mentre la veste si gonfiava attorno alle sue carni in modo abnorme. Il bel viso era deturpato dalla rabbia che ne alterava i lineamenti. Le mani artigliavano il vuoto protendendosi verso il padre, nel tentativo di ghermirlo.
«La mia prematura dipartita peserà sulla vostra coscienza come un macigno. Maledico il giorno in cui mi avete generata e maledico la vostra misera esistenza! Se non fosse stato per le vostre brame di potere io sarei ancora viva e invece il mio corpo martoriato giace su quel giaciglio e la mia anima sarà legata a questa casa per l’eternità. Voi mi avete consegnato a quel mostro e d’ora in avanti io vi tormenterò con la mia presenza senza darvi tregua, accompagnerò la vostra esistenza finché la morte non vi troverà e assisterò al vostro ultimo respiro con immenso piacere!» enunciò il fantasma avvicinandosi pericolosamente al conte. «Questo sarà il mio regalo di Natale per voi, padre». 
La vecchia pendola batté il primo rintocco. Il signor Bonti alzò lo sguardo dal libro. Il fantasma era già svanito oltre l’uscio della biblioteca da parecchio. L’aveva invocato alcune volte, come al solito, ma lei era svanita in fretta.
«È Natale, mia bellissima Angelica, speravo nella vostra clemenza stasera. Magari che vi fermaste un po’ ad ascoltare questo vecchio in vena di confidenze» disse chiudendo il tomo.
L’urlo lo investì lasciandolo a bocca aperta. Un brivido di paura gli scese lungo la schiena mentre una corrente gelida s’insinuava nella stanza.
La dama apparve davanti al camino. I capelli erano scompigliati e la veste fluttuava nell’aria ghiacciata. Il suo bel volto era divenuto un ghigno malefico, le sue mani erano contratte e parevano pronte ad artigliarlo.
In un attimo gli fu addosso. L’orrore si dipinse sul viso dell’uomo mentre il suo affaticato cuore batteva all’impazzata. La paura lo strinse nella sua feroce morsa e quando l’eterea presenza gli fu davanti strabuzzò gli occhi. Il sangue pompava furioso nelle sue vene, troppo veloce per quel corpo stanco e malato. 
Fu questione di un attimo, il cuore fece le bizze e il suo respiro si fece rantolo prima e assente un attimo dopo.
Il corpo ormai senza vita si accasciò sulla poltrona come una vecchia coperta malandata.
La crudele risata di Angelica riecheggiò nella stanza e accompagnò l’ennesima dipartita.
«Buon Natale, signor Bonti» sibilò la dama svanendo nell’aria.


domenica 16 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dono da Baba Deca


Ciao a tutti,
come avete passato il fine settimana? 
Non preoccupatevi, non ci siamo dimenticate di voi e per dimostrarvelo ecco un'altro bel regalino da mettere sotto l'albero.
Per questo splendido dono dobbiamo ringraziare...

Barbara de Carolis in arte Baba Deca nasce in un ospedale romano dopo aver occupato il ventre materno per ben dieci mesi. Ultima di cinque figli, trascorre l’infanzia nella Roma degli anni ’80 tra biciclette, tanti amici maschi, film horror e partite a pallavolo. Frequenta il liceo artistico per sei anni (cinque sembravano pochi) e si laurea in Storia moderna e contemporanea. Mamma, vegetariana dall'adolescenza, ama il mondo del cinema e della letteratura fantastica a tutto tondo. Ha iniziato a scrivere per diletto, ha collaborato con La Repubblica, svariati quotidiani locali e on-line, occupandosi prevalentemente di recensioni e articoli a carattere culturale, ha pubblicato testi di narrativa, è presente in diverse raccolte di fantascienza. Attualmente si occupa di Risorse Umane per un importante Gruppo Editoriale e collabora con due blog letterari.

E ora, come sempre, andiamo a gustarci questo regalo.


Era l’antivigilia di Natale e Sebastian correva perché non c’era tempo per camminare.
Il treno sarebbe passato di lì a pochi minuti e la stazione era ancora lontana.
Pioveva con il sole, e questo lo divertiva da sempre, perché i suoi occhi di bambino trattenevano quella patina di stupore e meraviglia che poteva trasformare ogni cosa in un avvenimento straordinario. I suoi undici anni lo facevano sentire un semi dio; il tempo in cui tutto sarebbe cambiato e tutte le scelte, anche le più banali, avrebbero comportato inevitabili conseguenze, non lo vedeva nemmeno. L’età lo assisteva, e la maschera di ingenuità che celava gli errori di un ragazzo, avrebbe giustificato ogni suo gesto, in tutte le circostanze.
Aveva una vita davanti a sé, e una successione di istanti da vivere per giocare, crescere, sbagliare, imparare e per vendicare. Si, vendicare. Quel giorno le circostanze lo avevano indotto a pensare, per la prima volta nella sua esistenza, alla vendetta come a un concetto chiaro e palpabile. Vendicare il suo orgoglio ferito,
mettere a tacere l’inutilità delle offese declamate con tanta leggerezza. Vendicare: questa parola lo esaltava ed era la parola del momento.
L’odore della terra bagnata saliva diffondendosi nell'aria senza parsimonia, faceva freddo e le gocce di pioggia cadevano con delicatezza sui suoi occhi senza infastidirlo, le decorazioni di Natale distribuite sugli alberi e sulle facciate dei negozi lo inondavano di felicità, risvegliando in lui quella rassicurante sensazione di calore che associava da sempre alla magica ricorrenza. Tutto sembrava incantevole, se solo non fosse stato per quella maledetta voce che echeggiava nella mente con la stessa cadenza di un fastidioso suono campionato: “Sei stolto, mi ricordi proprio il titolo di un romanzo di Dostoevskij!”. Così aveva sentenziato il professore di italiano allontanandosi dalla classe al termine di una mortificante interrogazione nella quale Sebastian aveva dimostrato il peggio di sé; prontamente, il ragazzo, animato dal suo orgoglio di studente sfaccendato, si era collegato su internet dal computer della piccola sala d’informatica della scuola, seguito dall'intera classe.
“Chi è Dostoski, o come cavolo si chiama? E come si scrive? Dai aiutatemi” diceva Sebastian scuotendo la testa, agitando le mani e ridendo. “Dostaski, Dostieski, eccolo!” Una lunga biografia era a disposizione per conoscere la vita e le opere del grande scrittore e lo sguardo dei ragazzi si concentrò sui titoli dei romanzi,
Il giocatore, Umiliati e offesi, Delitto e castigo, quando qualcuno gridò alle sue spalle: “L’idiota, sì è l’Idiota!”. A quella voce se ne unirono altre: “Sì, l’idiota, Sebastian l’idiota!” cominciarono a gridare tutti senza esclusione. “Ridete pure, e. . . allora lui è. . . è questo” disse, indicando un altro titolo, fiero per la sagacia della sua battuta.
“Un pover'uomo, ecco cos'è lui, un pover'uomo!” ma nessuno rise. La battuta non era poi così divertente, o almeno, non come quella del professore. Sebastian era divorato dalla collera, non ammetteva di essere preso in giro dai suoi compagni per colpa di quello che lui aveva sempre definito un vecchio rimbambito. La campanella suonò, l’entusiasmo per l’inizio delle vacanze di Natale scoppiò manifestandosi nelle urla dei ragazzi. Lui uscì dall'aula, rientrò nella sua classe, prese lo zainetto e corse fuori dalla scuola.
Corse incontro al suo destino. La stazione era vicina e gli occhi di Sebastian non persero neanche per un istante l’arrivo del treno. Entrò nella stazione a una tale velocità che sembrava quasi che i piedi non toccassero terra. Le sue intenzioni era reali, era risoluto a porre fine al risentimento e per farlo doveva agire senza troppe remore. Raggiunse la banchina, si fece largo tra la folla, superò furente un uomo vestito da Babbo Natale che agitava un festoso campanello, il treno era a pochi metri, ancora un attimo, ancora un passo e ce l’avrebbe fatta, un ultimo sforzo. Arrivò di fronte a un uomo intento a ripiegare metodicamente il giornale e lo spinse con tutta la forza in suo possesso. 
Il treno si fermò, il campanello non suonava più, mentre il sangue, la materia cerebrale e gli avanzi del corpo dell’uomo, schizzarono in ogni dove, sui volti, gli abiti, i bagagli di chi vide tutto, e tra le tante grida di orrore che si alternavano scomposte tra la folla, si levò una voce rabbiosa ma sommessa: 
“Professore, chi è l’idiota ora?” 
La pioggia divenne neve, i fiocchi di neve si tinsero di rosso posandosi in una pozza di sangue in terra e lui rimase immobile a guardarli, amava il rosso, gli ricordava il Natale…
Il tempo avrebbe, comunque, continuato ad assisterlo; era solo un bambino e a sua disposizione c’erano tanti anni per riflettere sulle proprie azioni, per crescere, per comprendere e, infine, per espiare, come fanno gli adulti che vanno in galera, quelli che rubano, strappano la vita terrena, violano le esistenze altrui, ma poi si redimono e pagano il loro debito con la società. Niente di più semplice...espiare, questa parola lo esaltava, ed era stata eletta la parola del momento.



giovedì 13 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dona da Giovanni Stoto


Buon sera a tutti,

come va? Pronti gli addobbi natalizi? Noi si e sotto l'albero abbiamo un altro pacco per voi!
 Il regalo di oggi ci viene gentilmente offerto da....


Giovanni Stoto, nato a Napoli il 13 giugno 1973, trasferitosi a Latina all’età di 4 anni, dopo aver girato il mondo mette in pratica il detto “mogli e buoi dei paesi tuoi”, tornando a vivere a Latina dove sposa una concittadina che solo 10 anni prima gli aveva dato il due di picche.
Ingegnere Informatico per necessità, ai bit preferisce la moto, il mare, le immersioni, la fotografia, le auto, la lettura e scrivere poesie. Ha da poco scoperto il mondo dei racconti brevi e cerca inutilmente di eguagliare i fasti di Theodore Sturgeon e Fredrick Brown.
Seguitelo nel suo blog http://thegios.blogspot.com, dove laconicamente armonizza l'amore per tutte le sue passioni, bit esclusi.


Ora andiamo a scartare questo nuovo regalo! Buona lettura a tutti.



Non ero mai riuscito a portarla con me giù in cantina senza che lei facesse tante moine. É strano come ogni volta trovasse una scusa che sul momento sembrava un pur valido motivo. Ricordo ancora la prima volta che varcammo la soglia di casa: fu impressionata da quegli scalini ripidi che sembravano immergersi in un abisso di pece, un mare denso e nero che emanava, lei diceva, un nauseabondo odore di vecchio. Ma pensa, e io che credevo che le cantine profumassero di oli delicati e d’incensi orientali.
E che dire delle fantasie che quel posto le suscitava nella mente? Una sera, mentre ero concentrato su un difficile passaggio di una fuga di Bach, lei mi fu dietro in preda al panico, balbettando frasi assurde, con la convinzione che il buio in fondo alle scale della cantina fosse solido, tangibile. 
E fu ancora più convinta di ciò da quella volta che tornai dal basso completamente ricoperto da uno strato di fuliggine, e cercai invano di spiegarle che ero andato a mettere ordine nella carbonaia.
Passarono le settimane, e con il sopraggiungere della primavera scendevo di rado in cantina: con il caldo infatti la caldaia era ormai inattiva, e non essendo io un gran bevitore di vini non avevo alcun pretesto per mettere piede in un posto così angusto, e umido e buio. Non che ne fossi spaventato, comunque!
Mia moglie, invece, prese la strana abitudine di star seduta per ore sul ciglio delle scale a fissarne il bordo. All’inizio la faccenda non mi preoccupò più di tanto. Anzi, mi divertiva e pensavo fosse un modo come un altro per esorcizzare la sua fobia.
Un giorno la osservavo, la mia mente persa altrove, il suo sguardo fisso sulla porta, quando repentinamente saltò giù dalla sedia gridando “Avanza! Avanza!” e solo dopo un paio d’ore riuscii a calmarla e a farmi raccontare quale strano fenomeno l’avesse spinta a comportarsi in maniera così irrazionale. Mi spiegò allora che quel “buio”, oltre a essere palpabile, aumentava nel tempo di volume! 
Era cioè convinta che si stesse espandendo, e per avvalorare la sua tesi mi raccontò di aver contato solamente dieci scalini, mentre affermava che il mese precedente ve ne fossero almeno dodici.
Ogni mese che passava vedeva sempre meno scalini...
La portai da uno specialista e da quel giorno ogni scalino in meno che contava era una dose in più di sedativo. Cominciai a pensare a cosa sarebbe successo quando di scalini non ne sarebbero rimasti più.
Forse è questa la pazzia: guardare il buio della cantina e contare ogni giorno uno scalino in meno.
Divenne così impossibile farle attraversare quella porta, anche in quei giorni in cui non potevo andarci di persona perché costretto a letto. L’inverno imperversava.
Faceva freddo. Il carbone aveva smesso di bruciare. Era necessario che qualcuno ne aggiungesse dell’altro, ma quella stronza non aveva intenzione di scendere in quella fottutissima cantina. Mi imbottiva di medicine, nella speranza di accelerare la mia guarigione, e si metteva a frignare.
«Almeno oggi cristo, è Natale, vai di sotto ad accendere quella cazzo di caldaia» gridai un giorno invano, esasperato più dal freddo che dalla malattia.
É passata una settimana, e fa ancora molto freddo. Sono ancora ammalato, ma non sono più a letto. Sto scendendo in cantina per accendere la caldaia, anche se con grande fatica: il petto mi fa male quando mi piego, e il respiro è ancora corto e affannato. Ma io sono una marito premuroso, e ci tengo a non lasciare disordine in casa. Adesso, infatti, sto portando in cantina i pezzi più piccoli. Dopo però devo ricordarmi di tornare su a prendere la testa: è la parte del corpo che brucia più lentamente, è pertanto necessario che la caldaia sia a massimo regime.
Ora fa un po' meno freddo...




lunedì 10 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dono da Anna Grieco


Buon giorno a tutti e buon inizio settimana, continua lo speciale.

Per rendere piacevole questo lunedì eccoci pronti ad omaggiarvi con un altro piccolo dono, a regalarci questo splendido pacco sarà una delle new entry del nostro blog di chi sto' parlando....




Anna Grieco, 39 anni, vive a Barletta. Moglie e madre, nel 2010 ha pubblicato il suo primo romanzo, “Amore al di là del tempo”, per la Linee Infinite Edizioni. Finalista del 4° Premio letterario internazionale de “La penna blu”, il suo racconto, “Il signore dell’arena”, è stato pubblicato nell’antologia dedicata al premio. Ha scritto inoltre diversi testi, tutti editi: “Quando la noia uccide”, in 365 Storie Cattive; “Il cielo in una stronza”; “Vlad Dracul”, che a breve sarà pubblicato nella raccolta Asylum 100; per la casa editrice GDS “Lacrime di sangue” , “Tenebra e luce” e “Stavros”; “La voce del cuore” e “Spiriti nella cattedrale”, pubblicati rispettivamente sul primo e sul settimo albo di Scritture aliene, per la Eds Edizioni; per Ciesse “Cassandra Prophecies”, facente parte dell’antologia D-Doomsday.
Di prossima uscita “Bestia”, “Xenia e il vaso di Pandora”, “L’ira di Apollo” e “Speranza”.Collabora con il Fantasy Planet.

Ora a voi il compito di scartare il suo dono!


Il rosso è stato il colore dominante di tutta la mia esistenza.
Scarlett, così mi ha chiamata mia madre. Sono nata da un’infuocata notte di passione.
“La più bella scopata della mia vita”, non fa altro che dirmi.
Me lo ripete ininterrottamente da vent'anni, soprattutto quando è sbronza o peggio ancora, fatta.
“Hai i suoi stessi occhi”. Anche questa frase l’avrò sentita un milione di volte. Solo di recente però, ho scoperto che è vero.
Non avevo mai conosciuto il bastardo che ha sputato nel suo grembo, generandomi. Fino a qualche tempo fa non mi interessava neppure, ma quando un bel giorno ho visto la sua faccia stampata sui giornali, mi è scattato dentro qualcosa.
È un grande uomo d’affari lo stronzo, ha talmente tanti quattrini che gli escono dalle orecchie. Nell'intervista che ha rilasciato per il “Financial Magazine” si è dipinto come una persona piena di valori, devoto alla moglie e ai due bambocci che ha messo al mondo.
Cazzate! All'epoca è scappato non appena il suo cervello ha registrato la parola “figlio” e l’ha associata a “paternità” e quindi a “problemi”. Non si è nemmeno mai degnato di cercarmi, benché sapesse di avere una figlia in giro da qualche parte, che forse aveva bisogno del suo aiuto.
Del resto perché avrebbe dovuto? Non sono stata che un incidente di percorso che ha abilmente rimosso dalla mente.
Qualcuno direbbe: “Hai pur sempre tua madre!”.
Se lo fosse mai stata! Si è attaccata alla bottiglia e agli spinelli da quando il grande Jason Hollister l’ha mollata, perdendosi nel suo mondo allucinogeno e dimenticandosi completamente di me. Puah! Io non farò mai la stupidaggine di innamorami.
Non ci tengo a mandare in pappa il cervello con quelle smancerie del tipo cuore e amore. Non che disdegni l’altro sesso, sia chiaro, ma gli uomini li voglio nel letto solo quando desidero farmi una cavalcata come si deve.
Un flebile lamento mi distrae dai miei pensieri.
Mi giro e guardo le due figure appese per i polsi al muro grigio e ammuffito.
I miei cari genitori!
Il sangue cola dai loro corpi nudi, ha formato una grossa pozza scarlatta sul pavimento, penetrando negli interstizi. Mia madre è morta da poche ore. Peccato, pensavo resistesse di più, ma è sempre stata una pusillanime e non si è smentita neanche al momento di crepare.
Comunque ho ancora lui. Ha una resistenza straordinaria al dolore, non sono riuscita ancora a farlo gridare.
È un duro Jason, ma lo sono anch'io.
Prendo l’accendino e mi accendo una sigaretta, aspirando una grossa boccata, poi mi avvicino facendo attenzione a non sporcarmi gli stivali. Sono costati duecento dollari, cazzo!
Sorrido. Il primo regalo comprato con i soldi del mio paparino.
«Ehi, ti sei svegliato?» dico all'uomo che ho di fronte. I suoi occhi sono offuscati dal dolore, ma non provo nessuna pena per lui. L’unica cosa che mi viene da pensare è che mia madre aveva ragione: abbiamo davvero gli stessi occhi.
«Lasciami andare. Se sono i soldi che vuoi, puoi averli tutti» torna a dire per la centesima volta da che l’ho rinchiuso in questo garage.
Beh, oddio! Garage è una parola un po’ grossa per descrivere questo posto. Latrina sarebbe più azzeccato, visto quanto puzza, ma non sono riuscita a trovare niente di meglio così su due piedi. Pazienza, non sono schizzinosa e servirà comunque allo scopo. Siamo isolati per miglia e miglia. Qui nessuno sentirà nessuno, ed è questo che conta.
«Ma come? Vuoi lasciare sola tua figlia alla vigilia di natale?
Non desideri recuperare anche tu il tempo perduto?» lo derido mentre gli soffio in faccia una nuvola di fumo.
Non replica. Non sopporto l’indifferenza.
Questa cosa comincia a innervosirmi. Estraggo il coltello a serramanico dalla tasca dei jeans. È piccolo ma ben affilato.
Lo metto bene in mostra davanti a mio padre. L’ha provato parecchie volte ormai, sa che lo aspettano sangue e dolore.
Immergo gli occhi nei suoi mentre gli incido la carne del petto.
Lui sussulta, digrigna i denti, ma non emette suono.
«Wow, siamo proprio coraggiosi!» mi complimento. «Vediamo se questo ti fa effetto» dico spingendomi più giù, verso lo stomaco. Osservo affascinata la lama che taglia la carne come se fosse burro. Immergo le dita nello squarcio, scavo, toccando muscoli e nervi, poi mi porto la mano grondante sangue alla bocca per leccare i polpastrelli.
«Delizioso» mormoro mentre i canini si allungano fin quasi a toccare il labbro inferiore. Un fiotto di sangue mi sporca i pantaloni ma non importa, ho ottenuto ciò che volevo. Le grida di Jason sono musica per le mie orecchie.
Mi attacco al suo collo, preda di una smania inaudita. Ho tenuto a bada la fame per gustare la mia vendetta.
Il sangue, ricco e corposo, mi scende in gola come un liquore, inebriante e ricco di energia.
«Ma guarda che ingorda. Lasciane qualche goccia anche a me, tesoro!»
Quella voce familiare mi distrae dal mio pasto. Alzo il viso per puntare gli occhi sul magnifico vampiro che mi sta davanti.
Edward. È lui che ha cambiato la mia vita un mese fa, quando mi ha trasformata. Niente cuoricini però, la nostra è una relazione di comodo, ognuno fa quello che gli pare. A parte qualche scopata quando ce ne viene voglia.
Il ricordo dell’ultima mi accende improvvisamente il corpo di desiderio e un odore muschiato si diffonde nell'aria, mescolandosi all'effluvio del sangue.
Edward arriccia le labbra in un sorriso consapevole mentre si avvicina con quella sua andatura elegante. 

«Tutto questo ti ha messo addosso un altro tipo di fame, eh baby?» mi dice strizzandomi l’occhio.
«Sbrighiamoci!» mi limito a rispondere con un sorriso ferino, poi sollevo la testa di Jason affinché sia l’ultima cosa che veda prima di raggiungere mia madre.
Una campana risuona in lontananza. È mezzanotte.
«Buon Natale, papy!» sogghigno.
Un attimo dopo tutto diventa scarlatto.
Scarlatto come il sangue.


venerdì 7 dicembre 2012

"Natale con semplicità" un dono da Monique


Ciao a tutti,

da noi si comincia a respirare il vero freddo natalizio e per scaldarci un po' c'è bisogno di fare attività quindi... Pronti a scartare il secondo dono di "Natale con semplicità"?!? 

Naturalmente prima di gustarci questo pacchetto è giusto dire: "GRAZIEEEEE" a... 

Monique Scisci
nata a Milano il 21 aprile del 1982. Ha conseguito il diploma quinquennale di Liceo Artistico con sperimentazione Michelangelo. Attualmente lavora nel reparto commerciale di un’azienda
edile. Ha collaborato per il settimanale ‘Sabato’ del sud-est di Milano. Nel 2012 ha pubblicato il romanzo urban-fantasy dal titolo L’Ampolla Scarlatta edito da Ciesse Edizione. 
Articolista per ‘Fantasy Planet’. Fortemente impegnata per la salvaguardia degli animali e per il rispetto dell’ambiente.


E ora gustiamoci il suo magnifico regalo.


Una pressione sulla spalla mi fece trasalire e riemersi nel presente. Mi voltai. Mia madre piegò la testa da
un lato e sorrise, fissandomi con sguardo pensieroso.
«Stai bene?» sussurrò per non farsi sentire dai presenti.
Annuii con un cenno del capo, grata della sua discrezione. Le restituii un sorriso poco convinto. Era il primo natale senza Thomas, non era affatto facile sopportare la sua assenza, il dolore mi lacerava.
La tensione che si respirava a casa dei miei genitori mi riempiva di angoscia e solitudine. I ricordi riecheggiavano famelici, divorandomi, minando il precario equilibrio che mi ero imposta.
Mi voltai, cercando Adele, l’unico motivo per cui andavo avanti.
Mia figlia giocava con i due cuginetti poco più grandi di lei. Il sorriso le illuminava il volto. La vocina stridula contagiava l’intero salotto. Era bella e paffuta, e aveva gli occhi di suo padre. Quelle perle scure me lo ricordavano più di ogni altra cosa.
Il cuore mi si strinse. Spostai l’attenzione.
Viola, mia sorella, e il marito Giacomo stavano finendo di sparecchiare. Ogni tanto mi guardavano circospetti, forse temevano potessi crollare da un momento all'altro. Sabrina, la nuova fidanzata di mio fratello Diego, stava tagliando il panettone. Quell'atmosfera incerta doveva pesarle parecchio.
Mi alzai e raggiunsi i bambini che giocavano sul tappeto.
Diedi un’occhiata al pendolo, segnava le undici e mezza. “Fra mezz'ora è Natale” sospirai a malincuore.
Nessuno aveva previsto di vestirsi da Babbo Natale e questo rendeva l’atmosfera ancora più amara, il vuoto era tangibile. Thomas si travestiva ogni anno, ci teneva molto e si preparava giorni prima. Diceva che l’espressione innocente che trapelava dagli occhi dei bimbi lo riempiva di gioia.
Mi inginocchiai. I tre marmocchi si voltarono. Adele mi fissò curiosa.
Sorrisi.
«Allora siete pronti?» esclamai. «Tra poco apriamo i regali».
Le vocine esplosero trepidanti.
Li osservai gioire e ridacchiare. Thomas aveva ragione, era bello osservare la loro purezza. Mia nipote Sofia sgambettò davanti al grande albero, sotto il quale vi erano diversi pacchetti colorati. Mattia la raggiunse subito dopo, prese un pacchetto e lo mise in controluce, non stava nella pelle. Con la coda dell’occhio intravidi lo sguardo cupo di Adele. Mi fissava come se avesse intuito le mie emozioni.
La raggiunsi e la presi in braccio. Mi circondò il collo. Inalai il suo profumo, l’odore di borotalco era piacevole. Dovevo essere forte per lei, era mio dovere. Feci del mio meglio per assumere un’espressione felice. 
Il citofono suonò due volte e di colpo piombò in silenzio. Ero sicura ci fossimo tutti.
Mio padre uscì dalla cucina titubante, in mano reggeva un vassoio pieno di dolci. Intercettai lo sguardo
circospetto che lui e mia madre si scambiarono.
«Ma chi è?» chiese Viola, andando verso la porta.
«Non ne ho idea» commentò mia madre, facendo spallucce.
«Magari le solite vicine rompiscatole» punzecchiò Diego. Mia madre gli lanciò un’occhiataccia di rimprovero, ma lui fece finta di niente.
Viola attese qualche istante incerta, il tempo parve fermarsi. L’atmosfera mutò. Uno strano senso di calma si profuse nel salone e alla fine mia sorella si decise ad aprire.
Misi a terra Adele e rimasi ferma a osservare l’entrata, nascosta appena da un muro.
«So che alcuni vicini hanno ingaggiato un Babbo» disse Giacomo facendomi l’occhiolino, non voleva che
i bambini capissero.
«Buonasera!» esordì una voce baritonale. Sussultai, aveva un retrogusto familiare.
Feci un passo avanti curiosa e lo vidi. Giacomo aveva ragione; era proprio Babbo Natale.
«È arrivato Babbo Natale!» urlò mia sorella eccitata sbattendo le mani. Lo seguì mentre faceva la sua entrata trionfale. Sulla spalla reggeva un enorme sacco scuro che poggiò a terra. I bambini si ammutolirono affascinati. Rimasi a osservarlo incantata. Mi madre mi si affiancò.
«Deve essere stata Giulia» disse.
«Chi?» domandai interdetta.
«La nostra nuova vicina. Impazzisce per le sorprese, domani la ringrazierò». Detto questo raggiunse i bambini che eccitati avevano iniziato a rovistare nel sacco.
Per un attimo ebbi l’impressione di avere di fronte Thomas, la fisionomia era simile. Scrollai il capo infastidita.
Babbo Natale si fermò davanti a me, piegò la testa e ci guardammo per un lungo istante senza dire nulla. Non so perché, ma quell'individuo aveva qualcosa di strano.
Potevo vedere solo gli occhi, che erano grigi, scuri e profondi, così familiari che mi ci immersi come fosse la cosa più naturale del mondo. Mi riportarono al giorno del mio matrimonio.
Thomas era teso davanti al sindaco, osservava il mio incedere lento. Quando lo raggiunsi non seppe dire nulla, ma il suo sguardo era pieno di promesse.
«Mamma hai visto che è venuto lo stesso?» vociò Adele pizzicandomi la gamba. Distolsi subito l’attenzione dall'uomo. La mente mi stava giocando brutti scherzi. Guardai mia figlia che saltellava felice. Le feci un cenno di assenso con la testa e partì all'assalto del sacco.
«E così i vicini hanno ingaggiato un Babbo Natale?» mormorai mentre nel salotto si stava scatenando l’euforia.
L’uomo spostò lo sguardo sul gruppetto di marmocchi. «Nessun bambino dovrebbe smettere di credere
alle favole» disse loro.
Quella frase mi atterrò, era una cosa che ripeteva spesso Thomas. Intontita non feci in tempo a controbattere. L’uomo mi superò raggiungendoli. Lo seguii sconcerta.
«Tutto bene tesoro?» domandò mio padre. Evitai di guardarlo. Il nodo in gola si strinse, stavo per crollare.
«È tutto così sbagliato papà» sussurrai tentando di fermare la colata di lacrime, con gli occhi fissi su quello strano personaggio.
C’era un non so che di familiare nel suo atteggiamento.
«Lo so!» fece lui.
«Devo prendere aria» lo avvertii allontanandomi.
Recuperai il soprabito e uscii in giardino.
L’aria era fresca, ma non c’era vento. Il cielo era stellato e le villette di fronte erano meravigliosamente illuminate. Le osservai inalando grosse boccate di aria.
«Fa freddo!» esordì una voce alle mie spalle.
Mi voltai sorpresa.
Babbo Natale era sulla soglia e mi guardava.
«Il gelo è pungente questa sera» continuò avvicinandosi. La sua presenza rilasciava calore, sembrava
profondere benessere, ma il profumo rievocava ricordi feroci. Era lo stesso di Thomas, dolce, fruttato e
terribilmente sensuale.
Un brivido mi percorse la schiena, tremai.
«Lei non ce l’ha una famiglia con cui festeggiare?» domandai sfoderano un’ironia del tutto fuori luogo.
Mi morsi la lingua.
Intravidi i lunghi baffi bianchi alzarsi. Stava sorridendo? Impossibile a dirsi sotto quel barbone bianco ghiaccio.
«Diciamo che al momento preferisco occuparmi della felicità altrui» rispose calmo. Anche la sua voce era molto simile a quella del mio defunto marito.
«È una questione di soldi?» domandai. L’uomo si voltò, fissandomi severo.
I suoi occhi erano un continuo ritorno al passato, sostenni il suo sguardo con molta fatica.
«Adele le somiglia molto» disse, «diventerà una donna forte, ma ha bisogno di lei!»
Lo guardai di traverso facendo un passo indietro.
«Mia figlia non è affar suo!» sbottai stizzita.
L’uomo appoggiò a terra il sacco dei regali ormai vuoto.
«Mi scusi» disse, «non era mia intenzione offenderla».
«Non ha nessun altro a cui far visita?» ribattei acida. Lo strano individuo recuperò il sacco e fece per andarsene. «La morte non è eterna Nicole» proferì voltandosi.
«Cosa?» sussurrai intontita. Erano le stesse parole che Thomas aveva pronunciato sul letto di morte.
«Dicono che il tempo aiuti a sopportare l’attesa» concluse allungandosi verso il cancelletto.
Le lacrime fuoriuscirono come fiumi in piena. Gli argini che avevo faticosamente costruito, per delimitare il dolore, erano crollati.
In preda a mille emozioni contrastanti rimasi immobile.
«Che significa?» urlai dopo un attimo.
Sconvolta scesi di corsa gli scalini per raggiungerlo, l’uomo era già oltre il cancello della villa.
Sentii la voce di Adele alle mie spalle. Mi voltai, le diedi un’occhiata distratta, poi ritornai a guardare il vialetto, ma l’uomo era magicamente svanito nel nulla.
«Mamma!» urlò di nuovo Adele. Percepii la sua urgenza, ma non riuscivo a tornare da lei.
Feci vagare lo sguardo nel vuoto. Lo sconforto mi assalì. Ero sicura che in qualche modo Babbo Natale
avesse a che fare con Thomas, forse si trattava di un fantasma o un angelo venuto a consolarmi. Più i secondi passavano più sentivo di avere ragione. Sentii il mio cuore scaldarsi. Adele mi raggiunse, aggrappandosi alla gamba. Le accarezzai la testa seguitando a guardare l’orizzonte scuro. Sottili fiocchi di neve cominciarono a cadere sfiorando la pelle.
«Mamma guarda, nevica!» gridò la piccola.
Annuii sorridendo, puntando al cielo.





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