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domenica 18 dicembre 2011
"Buone feste" da Chiara Guidarini
13:56 | Scarabocchio di
Sogno |
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Cari lettori, ecco cosa si nasconde dietro la finestrella del 18 Dicembre.
Con grande piacere abbiamo la possibilità di ospitare nuovamente quest'autrice fantastica, simpatica e gentilissima!
Lasciamo subito spazio a ... ...
(Anche perché noi siamo "sfinite" dopo una giornata dedicata ai regali Natalizi è stato un'inferno)
Chiara GuidariniNata a Carpi (MO) il 26 dicembre 1976. Ha vissuto per 27 anni a San Martino in Rio (RE) poi, per amore, si è trasferita in un piccolo paese dell’Appennino Reggiano di nome Minozzo. Diplomata in ragioneria, ha una grande passione per la storia antica e medievale, per questo in un primo momento i romanzi che scriveva erano prettamente storici. In seguito sfumarono nel fantasy e si intrecciarono al paranormale. È una mamma a tempo “quasi” pieno, e nelle pause si divide tra la contabilità dell’officina del marito, la casa, la scrittura e la lettura.
Alchemia
L’infanzia di Stella Mellei è un dedalo costituito da cupi ricordi, frammenti di realtà che la giovane non riesce a ricomporre ma che ritornano piano, spronati dal ritorno nella casa dove ha vissuto i primi anni di vita. In questo nuovo ambiente si alternano strani personaggi che hanno il potere di attrarla: l’oscuro Samuele e l’intrigante Matteo si muovono come pedine su una scacchiera, guidando Stella verso un mondo di cui ignora l’esistenza, ma che sente appartenerle. Aggirandosi per la casa, Stella ritrova ciò che sua nonna le ha lasciato in eredità: un’eredità più grande della casa stessa, qualcosa che sarà l’essenza della sua stessa vita e farà scattare il sigillo dei ricordi imprigionati nella mente. Una realtà che arriva dal passato per ricongiungersi direttamente col futuro, che la porterà a comprendere che niente è come sembra, che esistono creature antiche nascoste nell’ombra capaci di assumere le sembianze di persone normali, e che non esiste il bene assoluto come non esiste il male assoluto, mettendola davanti a un’ultima, difficile, scelta.
E ora lascio la parola a Chiara e i suoi auguri di "Buone feste"
(copertina creata da Fine e Sogno)
Gaio Marcello Severo alzò lo sguardo e sorrise. La casa, avvolta da un fitto turbinio di fiocchi di neve, pareva attenderlo e scrutarlo da lontano dagli occhi delle persiane socchiuse.
Non un lume s’intravedeva da quelle vetrate. Presto sarebbe giunta la mezzanotte e, assieme a lei, l’incubo che lui rappresentava.
Ah, quale meravigliosa attesa per lui era quella!
Da lì a poco, la fame che lo avvinghiava sarebbe stata placata.
Fece un passo, lasciando un’impronta nella neve fresca, poi un altro e un altro ancora.
Quanto tempo era passato da quando aveva mutato la sua forma?
Per un essere pluricentenario come lui il tempo era un fattore relativo; lui che già c’era quando Roma era stata incendiata e quando Ponzio Pilato aveva girato le spalle al giovane condannato in croce.
Da troppo tempo era diventato vampiro. E da troppo tempo cacciava. Ma mai, come nella notte di Natale, la notte della speranza e dell’attesa, la sua fame veniva placata.
Ogni anno, in quella particolare ricorrenza, sceglieva una vittima sacrificale.
Quando altri non era che un giovane legionario romano aveva assistito a un olocausto immolato dai druidi celtici per ottenere la grazia e il favore di Mitra. E ne era rimasto affascinato. Nonostante l’offerta al Dio fosse stata costituita dal suo migliore amico e fratello di sangue, Gaio non era riuscito a non apprezzare quel rito antico e potente.
La stessa terribile sorte sarebbe toccata anche a lui, se non avesse accettato di bere il sangue che colava come un fiume dall’altare. Nessuno l’aveva mai fatto. E, il signore di quella incontaminata foresta, ne era rimasto particolarmente colpito. Tanto da donargli il prezioso dono dell’immortalità.
La casa era vicina. Ancora un passo.
C’erano poi state le guerre, tante; c’erano state le crociate, c’erano stati sontuosi banchetti e grandiose danze. Poi c’era stata Parigi, con la sua Belle Epoque, e Londra… ah, quanti secoli erano trascorsi!
Come mai proprio questa notte ogni ologramma del suo percorso prendeva improvvisamente vita? Come mai gli errori, le promesse non mantenute, gli omicidi, si presentavano alla mente con rinnovata lucidità?
Lui uccideva per vivere. Se non si nutriva di sangue, non viveva. Un’equazione matematica molto semplice: non ti nutri, muori.
Non che avesse una gran scelta visto che poteva bere solo sangue umano.
Perché non era ancora arrivato? Perché si era arrestato davanti al cancello d’ingresso?
Le mani sfiorarono il freddo tubolare delle sbarre e, per un solo attimo, gli parve di percepirne il gelo.
Oh, ma lui era un vampiro, non poteva sentire né caldo né freddo. Né provare amore, odio, sentimenti. Lui doveva solo nutrirsi.
Cos’era allora quella sensazione che, improvvisamente, stava provando? Qualcosa che lo riconduceva a quando ancora possedeva un cuore che batteva nel petto.
Gli sarebbe bastato un solo tocco, e il cancello si sarebbe aperto. Un passo, e avrebbe raggiunto la porta. Allora, perché si attardava?
Perché la sua mente stava improvvisamente vomitando immagini, ricordi su ricordi, di cose accadute così tanto tempo prima da non averne quasi mantenuto memoria?
Eppure, quella che stava provando era la stessa sensazione di gelo che, più di due millenni prima, aveva avvolto la notte palestinese.
E la mente tornò indietro, alle casupole fredde e silenziose, al gruppo di armigeri che si stava avvicinando.
Quale ex-soldato romano, Gaio aveva saputo molto bene che ci sarebbe stata una lite, qualcuno avrebbe sfoderato la spada e presto l’avrebbe sporcata di sangue.
Una volta che tutto fosse finito, lui avrebbe potuto banchettare fino al mattino.
Trovare quel manipolo di capanne era stato estremamente facile: durante l’ennesimo vagabondare il suo udito sopraffino aveva carpito un rumore e l’aveva seguito; una fanciulla era andata al pozzo per riempire la propria anfora e lui l’aveva tallonata fino al villaggio.
Lei era stata gentile, gli aveva offerto l’acqua e aveva scambiato con lui qualche parola. Era giovane, ma il suo corpo mostrava i segni di una gravidanza terminata da poco. Sotto il velo scarlatto aveva capelli folti e neri che contornavano l’ovale sottile del volto pallido e sereno. Gli occhi, altrettanto scuri, parlavano di una gioia immensa e da così poco tempo provata.
Stranamente, Gaio aveva provato una fitta di simpatia per la giovane, e aveva deciso di risparmiarla. Ma non avrebbe risparmiato gli abitanti del villaggio.
Poche casupole, in realtà, dalle mura di pietra e dal tetto di paglia, per una ventina di abitanti in tutto.
Così, mentre stava premeditando l’assalto per placare la fame che si faceva sempre più pressante, le guardie dell’impero avevano fatto irruzione.
Mai combinazione di eventi fu più fortuita. In questo modo non si sarebbe nemmeno dovuto sporcare le mani.
Conosceva le abitudini di Roma e non aveva dubitato che di quelle tre case non sarebbe rimasta che qualche pietra annerita.
Durante la transumanza in Palestina aveva saccheggiato e oppresso proprio come tutti gli altri.
Il grido di una donna ruppe il silenzio perfetto della notte.
Si era sporto, ma non troppo. Vedeva perfettamente anche al buio. Il suo corpo lo informava di avere fame. Troppa fame.
Uno dei soldati era uscito dalla casa con un pargolo in braccio: un neonato di pochi giorni che scalpitava e piangeva forte quasi quanto la donna che lo seguiva. Ella aveva afferrato il gomito del soldato cercando disperatamente di fermarlo, ma era stata allontanata con uno strattone brusco.
Era la stessa donna che Gaio aveva seguito.
Lei era stata buona con lui. Gli aveva offerto l’acqua.
Gli occhi gli si ridussero a due fessure. Altre guardie stavano uscendo dalle case ma non avevano neonati in braccio. La spada si sollevò, le grida divennero più forti e assordanti. Se qualcuno si ribellò, venne trafitto.
Gaio aveva assistito alla scena senza batter ciglio. D’altra parte era un vampiro: cosa gli importava se un povero innocente veniva sacrificato?
Una maledizione aveva scalfito l’aria. Re Erode veniva nuovamente condannato.
In seguito, Gaio aveva scoperto che era stato lui a ordinare quella fredda mattanza.
Quando le guardie se ne andarono, lasciando la famiglia piangente china sul cadavere del neonato, Gaio si fece avanti. Nessuno, apparentemente, gli badò. Erano tre donne, tre uomini, qualche bambino.
«Voglio morire… voglio andare con lui!» mormorava la donna che aveva perso il bambino.
Gaio la guardò. Le avrebbe fatto un piacere mandandola laddove giaceva il suo piccolo. Se il marito lo avesse ostacolato, avrebbe ucciso anche lui. E via via chi osava protestare.
Con un gesto troppo veloce per essere colto dall’occhio si era avvicinato alla donna, le aveva spostato i capelli e affondato le labbra sul bel collo. Qualcuno, troppo scosso dalle atrocità della notte, aveva gridato, e in un istante ciò che rimaneva degli abitanti del paese si era disperso in una nuvola di confusione.
Quando la donna aveva chiuso gli occhi, lui l’aveva adagiata accanto al neonato, e glielo aveva messo tra le braccia.
Un gesto che raramente faceva, ma infondo quella donna era stata garbata con lui e lui non aveva programmato di ucciderla, sennò l’avrebbe fatto al pozzo. Però, vederla così sconvolta lo aveva addolorato, se di dolore si poteva parlare, così aveva preferito concederle la fine da lei tanto agognata.
Si era sollevato. Il marito era rimasto immobile, e lo osservava dagli occhi freddi e vitrei.
«Tu sei la morte?»
Gaio aveva annuito.
«Vuoi morire anche tu?»
L’uomo aveva fatto un cenno del capo. E il vampiro gli fu addosso. D’altronde, una fine come quella poteva considerarsi quasi una grazia.
Gaio portò gli occhi al cielo. La neve cadeva senza sosta formando piccoli turbini candidi. Perché proprio quegli omicidi gli erano tornati in mente ora?
Eppure, il ricordo si ripresentava con ferocia inaudita.
Il vampiro digrignò i denti, spalancò il cancello con un solo gesto e si avvicinò alla porta. C’era una coccarda sull’uscio, un augurio di felice Natale.
«Vai anche tu a vedere il bambino?»
Gaio sapeva che quella voce non era reale, che si trattava di un altro ricordo sgradito che si affacciava alla mente.
Era stata una bimba bionda a parlare, dalle guance paffute e con un agnellino tra le braccia che tratteneva a fatica.
Era passato poco tempo dalla fredda mattanza contro gli innocenti: nel suo transumare aveva trovato altri villaggi, altre fresche tombe di neonati e aveva scoperto che Re Erode aveva emanato un editto dove ordinava di uccidere tutti i bambini nati durante gli ultimi mesi. Che comportamento assurdo. Che male avrebbe mai potuto fargli un bambino?
Ora, la bimba attendeva una risposta. «Non mi interessano i bambini» rispose Gaio con freddezza.
Eppure, la luce di una stella cometa brillava con insistenza da giorni nel cielo della Palestina. E si mormorava fosse nato un Re. Forse era stato per questo Erode lo cercava con tanta foga.
«Idiota» sospirò Gaio davanti alla coccarda.
Quel ricordo gli impediva di proseguire.
Perché non entrava in casa e non faceva razzia? La ragazza lo attendeva, nella vana speranza di passare una notte d’amore, invece lui l’avrebbe uccisa.
L’aveva selezionata e avvicinata con cura. Era l’olocausto di Natale e doveva essere perfetto. Si trattava di una donna mora, alta e slanciata, bellissima. Aveva detto di chiamarsi Natalìa, nome perfetto come lo era lei.
Gli aveva così innocentemente fornito l’indirizzo della propria abitazione, lasciandogli addirittura la chiave della porta sotto lo zerbino. Come se lui ne avesse bisogno! Oh, ma lei questo non poteva saperlo.
Allora, perché attendere?
Raccolse la chiave e la rigirò tra le dita, poi decise di usarla. Meglio non destare sospetti.
Viveva sola, gli aveva detto.
Sarebbe stato tutto estremamente facile. L’avrebbe accolta nell’abbraccio che l’avrebbe accompagnata fino alla morte.
Aprì la porta.
Nell’ingresso troneggiava un piccolo albero di natale. Le luci colorate che lo addobbavano erano accese. Strano, perché da fuori non si vedeva alcun barlume. Nemmeno quello del camino che scoppiettava allegramente nel focolare.
Davanti al presepe c’era un bambino. Anche quello era strano.
Non doveva avere più di sei anni e restava perfettamente immobile, dandogli le spalle.
Gaio si stava domandando cosa se ne dovesse fare allorché s’insinuò in lui la fredda consapevolezza di non potere lasciarlo in vita.
Il bambino si girò di colpo, e nei suoi occhi dorati si riflesse l’immagine della creatura che l’osservava.
«Pace a te» disse.
Pace a te. Era dai tempi della Palestina che non udiva quella frase.
«Non sono in pace» rispose Gaio semplicemente.
Il bambino non pareva colpito in alcun modo da quell’affermazione.
A Gaio non erano mai piaciuti i bambini: non li capiva.
Quando gli era stato chiesto se fosse andato anche lui a vedere “il bambino” aveva risposto di no, non gli interessava né quel bambino, né altri bambini.
Poco distante da lì, la campana della Chiesa fece il primo rintocco.
Il bambino si alzò e, avvicinandosi, afferrò la mano del vampiro e la girò sul palmo, portandola all’altezza del cuore.
La sua era piccola ed esile a confronto.
«Puoi ancora essere in pace» disse.
Il campanile fece il secondo rintocco.
Gaio osservò duramente la scena. Come mai quel bambino non era terrorizzato? Chiunque, trovandosi con uno sconosciuto in casa, avrebbe preso a gridare. Invece, questa strana creatura gli teneva addirittura la mano. «Non dire sciocchezze. Preparati, non ti farò male» ostentò senza entusiasmo.
Inspiegabilmente, il bambino sorrise. Il campanile fece il suo terzo rintocco.
«Non mi farai alcun male»
«Questo lo vedremo»
Quarto rintocco.
«Tu lo sai, Gaio»
Ora, il vampiro era spiazzato. Chi era quel bambino e come mai conosceva il suo nome?
Quinto rintocco. «Chi sei?» domandò il vampiro. Forse, pensò, il nome glielo aveva detto Natalìa. Ma no, che sciocchezza, lui non pronunciava mai il proprio nome! Si presentava con nomi fasulli, mai, mai, mai diceva cose che potessero dettare dubbi alla futura vittima.
Il campanile aveva fatto due rintocchi, il sesto e il settimo.
«Pentiti» disse il bambino, perentorio. «Pentiti di ogni male commesso»
Gaio deglutì a vuoto. Lasciò la presa e fece un passo indietro, spiazzato.
Al nono rintocco, gli occhi del bambino erano ancora fissi sui suoi. Ed erano occhi vigili e attenti. Occhi di Re.
«No» mormorò il vampiro.
Il bambino sorrise. «Sì»
Decimo rintocco.
Gaio crollò in ginocchio. Cosa stava accadendo? Perché si era infilato in quella casa e chi era quello strano bambino?
«Pentiti.» disse il bambino con tranquillità, «Pentiti di ogni male commesso!»
E Gaio percepì un’inspiegabile senso di calore invadere il corpo, e alzando gli occhi non vide altro che un fascio di luce che calava su di lui.
Luce… quanto tempo che non la vedeva! Al dodicesimo rintocco, Gaio chiuse gli occhi.
E capì che l’olocausto di Natale era stato servito.
Forse, inspiegabilmente, era stato salvato.
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