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mercoledì 7 dicembre 2011

"Buone feste" da Romina Casagrande


Buon giorno, amici lettori.
Andiamo a scoprire cosa si nasconde dietro la finestrella del 7 Dicembre.

Ad augurarvi Buone feste oggi c'è una persona che ho avuto modo di conoscere da poco e vi assicuro che è gentilissima e fantastica stò parlando di...

Romina Casagrande è nata a Merano nel 1977. Laureata in lettere con indirizzo classico, insegna presso la scuola media Giovanni Segantini di Merano. 
Ha collaborato con il Museo del Turismo-Touriseum di Merano e con il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Bolzano-Museion, sotto la direzione dell’artista Heinz Mader. 
Appassionata di storia, tradizioni e folklore, divide il suo tempo tra scrittura e pittura in una casa piena di animali.


Amailija è il suo primo romanzo, edito da Anguana Edizioni.
pagina facebook QUI



il libro:
Anno 1342. Il patriarca di Aquileia lancia un terribile anatema su tutte le terre di Margareth, ultima Signora del Tirolo. Calamità e sciagure sconvolgono il paese e sollevano l’odio del popolo contro di lei, chiamata da tutti strega. Ma cosa si nasconde davvero dietro la maledizione della principessa triste, di cui nessuno conosce il volto? E soprattutto cosa la lega, quasi sette secoli più tardi, al destino di Alice, guida giovane e inesperta nel suo antico castello?
Anno 2010. Merano. Un apparente colpo di fortuna porta Alice a diventare una guida estiva per Castel Grafenstein, dove l’attende una presenza misteriosa, che visiterà i suoi sogni e cercherà di cambiare il suo destino. Tra passato e presente, scomuniche papali, cupe superstizioni e talismani Alice dovrà fare una scelta. La propria vita o un amore eterno, ma impossibile?


Lascio la parola a Romina e ai suoi auguri di "Buone Feste"

(cover creata da Fine e Sogno)


“Tutto questo finirà”, sospirò Jan, guardando le luci della città, piccole stelle contro il cielo nero della sera. Respirò l’aroma di cioccolato e zenzero, sulla lingua il sapore dolce del panpepato mentre sentiva già la nostalgia stringergli il cuore in un abbraccio freddo e triste.
“Sia ringraziata la Dea, aggiungerei. Ancora un giorno, Jan. Se così vorrà! E temo saranno ventiquattro lunghe, lunghissime ore.” Bree superò a passo spedito l’ennesimo negozio, senza neppure voltarsi. Trovava pacchiana tutta la neve finta che addobbava le vetrine. Finti orsi, finti pinguini, finti sorrisi. Il problema era che le sembrava tutto talmente…finto a Natale. 
“Ci pensi, Bree. Niente più feste, né quel…come si chiama? Quella cosa che ci ha fatto bere ieri Vince.” 
“Gin Daiquiri.” 
“Già”, si illuminò Jan. “Gin Daiquiri”, sussurrò per imprimerselo bene nella mente. Nel posto in cui sarebbero tornati non c’era l’ombra di bariste carine - e svestite - come quelle del Fullmoon. A dire la verità, non esistevano proprio bar, né cinema, metropolitane, stadi del ghiaccio. Non c’era la televisione, né si poteva scommettere sulle squadre di hockey. Non c’era un bel niente, pensò sprofondando nello sconforto. Soltanto alberi, alberi, il soffio del vento sulla neve gelida, l’eco della voce che attraversava spazi pieni solo di ghiaccio, e di nuovo alberi. 
“La Foresta non è poi così male.” 
“Mi hai letto di nuovo nel pensiero, Bree. Non vale!” 
“Beh, stiamo tornando a casa. Nessuno si lamenterà se riscaldiamo un po’ le dita e facciamo funzionare i poteri. Per non perdere la forma”, gli strizzò l’occhio. “Basta che lasciamo tutto così com’è!” 
Jan notò i bagliori violetti che coloravano le iridi di Bree. Le succedeva sempre, quando era eccitata per qualcosa. Ma come poteva davvero preferire la noia della Foresta a tutto quel divertimento? Si voltò. E per un attimo pensò che forse il Guardiano si fosse dimenticato di loro. Avrebbe potuto rubare ancora del tempo? Si illuminò. 
“Sul muretto, Jan”, gli suggerì freddamente Bree. 
Il gatto era lì, lo guardava con occhi verdi che non sembravano per nulla divertiti. 
“Non può andarsene a caccia di qualche topo o elemosinare una scodelletta di latte a una vecchia signora, come fanno tutti i gatti sulla Terra?” 
L’animale alzò la gobba e soffiò con aria minacciosa. 
“Attento, Jan. Ai Guardiani non piace essere presi in giro. Credo che questa te la farà pagare, appena tornati.” 
Jan salutò il gatto con una smorfia e digrignò i denti in un ringhio. La bestiolina sbuffò e scese dal muretto con un balzo. Senza perderlo di vista. 
“Sei poco credibile”, commentò Bree, attenta a evitare un ragazzo carico di pacchi. Lui si voltò per guardarla, facendo sobbalzare pericolosamente la pila. 
“Anche tu non lo sei”, la punzecchiò Jan. “Attiri troppo l’attenzione.” 
Ogni tanto Bree eccedeva nelle misure, con minigonne troppo corte e orecchini troppo vistosi. Ma era sicura di non aver scelto nulla che avrebbe potuto dare troppo nell’occhio, quella sera. Leggings neri, gonna appena sopra il ginocchio e un giubbetto viola con il cappuccio. E poi sciarpa color panna e cappellino di lana. Così infagottata si sentiva sexy come una marmotta. 
Forse la ciocca rosa… 
“Quella ti dona”, sorrise Jan. 
Bree lo fissò stringendo gli occhi in pericolose fessure. 
“Ora siamo pari”, lo sguardo verde di Jan si accese di una smorfia beffarda. In effetti l’unica cosa della Foresta che gli mancasse erano i poteri. Anche se usarli lì non era divertente come lo sarebbe stato in città. Quante cose avrebbe potuto fare? Cose da far rizzare i peli ai Guardiani. 
“Non pensarci nemmeno”, lo avvertì Bree. 
“Sei una fata noiosa.” 
“E tu un folletto rompiscatole.” 
Le bancarelle del mercatino di Natale erano cariche di figurine di vetro scintillanti, decori preziosamente intagliati, dolci e casette di marzapane. 
“Voglio comprare qualche regalo”, disse Bree, annusando le bacchettine di incenso. I lunghi capelli biondi disegnarono una lieve onda nell’aria mentre si chinava sulle boccette. Jan pensò che avevano il dolce odore del muschio e che era vero: la ciocca rosa le stava bene. Ma fece attenzione a non soffermarsi troppo su quella considerazione. 
Guardò intorno, per distrarsi con i colori della città, l’andirivieni frenetico ma ovattato che attraversava i vicoli coperti di neve.
La bancarella dietro di loro vendeva graziosi gioielli d’argento. Individuò un paio di orecchini, sufficientemente vistosi da poter piacere a Bree. E per un attimo si ritrovò a pensare che non si erano mai fatti un regalo. Ma loro erano amici. Amici veri. Di sangue e avventure. Quelle sciocchezze non facevano per loro. Sorrise. 
Si accorse della bambina soltanto quando si trovò i suoi occhioni neri che lo scrutavano curiosi. I bambini lo mettevano sempre a disagio. Sembra che sappiano tutto. Ti guardano in quel modo, sbattendo lunghe ciglia nere. E poi magari scoppiano a piangere all’improvviso, spaventati dalla creatura che hanno visto nascosta dentro di te. E allora la paura ti stringe i polmoni in una morsa mentre tu speri che nessun altro se ne accorga. 
Ma quella era diversa. 
Sorrise a Jan e poi si voltò verso il padre. 
Pericolo scampato. Il folletto si strinse nel giubbotto. Era freddo davvero e presto sarebbe cominciato di nuovo a nevicare. Già sentiva minuscoli fiocchi punzecchiargli di tanto in tanto il viso. Anche la bambina aveva le gote arrossate e Jan si chiese come potesse resistere con le mani nude e un golfino troppo leggero. Aveva i capelli tirati all’indietro in una lunga coda di cavallo e sembrava curata. Sembrava anche felice. Afferrò il padre per il braccio e lo trascinò verso la bancarella. Era un uomo dagli occhi limpidi e il sorriso gentile. Ma rughe sottili gli segnavano il volto. Le rughe di chi ha molti pensieri a fargli compagnia la notte. A giudicare dai vestiti semplici e trasandati, non doveva passarsela bene. Ma Jan riconobbe la stessa dignità, lo stesso candore della figlia. 
“Uuuh, quanto è bella la città”, gorgogliò acidamente Bree. “La gente sopravvive, Jan. Non dovrebbe funzionare così. Dovrebbero essere tutti felici, avere quello che vogliono.” 
Jan osservò la bambina alzarsi in punta di piedi per sbirciare dentro vassoi scintillanti di anelli e bracciali. 
Il padre scosse la testa, sorridendo. Ma non alzò gli occhi. 
Lei afferrò un bracciale, troppo grosso per il suo polso. Gli occhi brillavano di gioia mentre lo sollevava orgogliosa. Ma il padre scosse la testa di nuovo, in un gesto impacciato. Il sorriso della bambina non si spense in fretta, come quello dei bambini capricciosi, pensò Jan. Sbiadì lentamente. 
Fece tintinnare le maglie d’argento tra le parole sottovoce del padre. Quasi senza ascoltarlo, come ipnotizzata dalla magia di quei riflessi. Poi lasciò cadere gentilmente il bracciale sul velluto nero. Lo guardò un attimo ancora. Scese dalle punte e mise la manina in quella del padre. La strinse e insieme si allontanarono. 
Lei si voltò indietro, soltanto per sbirciare. C’era un’altra ragazzina, dove poco prima c’era lei. In equilibrio sulla punta degli stivaletti in pelle. E un’altra madre che la guardava sorridente alzare lo stesso bracciale che lei aveva dovuto lasciare sul velluto. Era una signora elegante, con un enorme cappello di pelliccia e una borsa da cui presto sarebbe uscita chissà quale meraviglia. 
Il padre si fermò, seguì lo sguardo della figlia e vide la scena. Poi la fissò dritta negli occhi. Inarcò le sopracciglia in una smorfia dubbiosa, ma con uno scintillio che già svelava la sua intenzione. Prese dalla tasca il portafogli e lo aprì piano. Guardò dentro, le dita ferme nella piega interna. Lei trattenne il respiro, le mani appoggiate al petto, come in preghiera. Si fissarono, parlandosi in una lingua che nessuno poteva udire ma che le creature della Foresta conoscono bene. Con un gesto rapido e leggero lui ne fece uscire una banconota un po’spiegazzata. Si inginocchiò all’altezza della figlia e la mise sul suo palmo, richiudendolo piano. 
Jan pensò che nessuna luminaria, nessuna fiamma di candela quella sera fosse luminosa e viva come gli occhi della bimba che correva verso il suo regalo. 
“E così addio a una settimana di lavoro”, disse rivolto a Bree, già carica di sacchettini. 
“Hai visto il suo sorriso? Credo ne sia valsa la pena. Certo, avrebbe potuto regalarle qualcosa di più utile. Un paio di guanti, forse. Ma non sarebbe stata la stessa magia. Non trovi?” 
Jan si bloccò. C’era qualcosa di strano. Qualcosa che non andava. 
Il Guardiano era seduto accanto alla bancarella di legno, una casetta addobbata con ghirlande di aghi di pino e palline rosse e argento. Si leccava pigramente una zampa. Per nulla interessato a ciò che stava accadendo.
Anche Bree adesso sentiva. 
Il folletto chiuse gli occhi. Si concentrò sulla scena. E vide. 
L’ambulante prese qualcosa, da sotto il bancone. Lo fece scivolare velocemente nel sacchettino verde che richiuse in fretta. Accettò la banconota con un largo sorriso e salutò la bambina che si allontanava per tuffarsi nelle braccia del padre. 
“Visto, Jan? Questa è la città”, soffiò Bree. 
Il folletto riaprì gli occhi. “L’ha sostituito con un bracciale di nessun valore.” 
Si voltò di nuovo verso il Guardiano che ricambiò con un miagolio infastidito. 
“Non possiamo usare il potere per cambiare le cose. Questa è la città, questo è il mondo che ti piace, stupido folletto”, disse Bree prendendolo sotto braccio. 
“Beh, se non altro la copia è ben fatta. La bambina non si accorgerà di nulla”, sorrise lui scrollandosi di dosso il freddo e una brutta sensazione. Il mondo era bello. Era bello comunque, si ripeté. 
“Gin Daiquiri?” chiese poi con voce allegra. 
“Basterà una cioccolata calda”, ringraziò la fata. 
Scelsero un tavolino rotondo, accanto alla bancarella più appartata. Il profumo di frittelle e l’aroma speziato del vino caldo riempivano l’aria in nuvolette di vapore. 
Da lì si poteva guardare la città. La lunga passeggiata, più sotto il fiume in cui si riflettevano tutte le luci. 
“Hai visto il mio?” chiese Jan intanto che allungava il collo in cerca di una cameriera. 
La stufa esterna stemperava l’aria e Bree poté finalmente levarsi di dosso i guanti e allentare lo sciarpone. 
“Il tuo guardiano?...No…Direi di no”, disse fermandosi a riflettere. Gil e Sylene lavoravano sempre insieme. Anche se nell’ultimo periodo la fata era convinta che avessero bisticciato. Sylene era sempre accanto a loro, nascosta nella sua affusolata forma felina. Preferiva la notte. E appena si faceva giorno, compariva Gil, che aveva scelto più robuste forme canine. Mentre lei si dileguava senza neppure salutarlo. 
“Beh, tanto meglio”, rispose Jan facendo spallucce. 
La cameriera che si avvicinò a prendere l’ordinazione non era esattamente quella che Jan aveva adocchiato. Li salutò con un sorriso imbarazzato. E molto scintillante, pensò il folletto sforzandosi di non fissare troppo l’apparecchio. 
Bree ordinò la sua cioccolata e Jan il suo Daiquiri. 
Poi la cameriera passò al tavolino centrale, molto più chiassoso e colorato. Lei fece finta di non sentire i fischi dei ragazzi. Inciampò sul filo della corrente - Bree trattenne il respiro– ma riprese maldestramente l’equilibrio.
Anche da dove era seduto, il folletto vedeva le gote paonazze della ragazza. Era pelle e ossa, un fascio di nervi tutto riccioli e forcine. Squadrata dall’alto in basso dai quattro ragazzi, aveva gli occhi fissi sul foglio delle ordinazioni. Scriveva meticolosamente. Forse sperando che il supplizio finisse in fretta. 
“Ehi!” gridò uno verso il bancone, “vogliamo quella carina! Mandaci la Chris!” 
“Sì, la Chris!” gridò un altro mentre quello accanto a lui mimava un seno prosperoso, sorridendo con occhi maliziosi. 
La ragazza tornò al baracchino. Socchiuse gli occhi e sospirò, proprio davanti alla fata e al folletto. Senza quasi vederli, mentre per poco non inciampava di nuovo nel filo, tra risate sguaiate e un coretto osceno. 
“Bree, non fare quella faccia.” 
“Bel mondo, bel mondo, Jan. Quanto manca ancora?” chiese fissando le lancette dell’orologio. 
“Un’ora meno di prima”, la anticipò il folletto. “Dai, in fondo un po’di ragione ce l’avevano. Voglio dire….” tossicchiò. La fata gli lanciò un’occhiata glaciale. 
"Beh, soltanto un po’…"
“Jan…” lo rimproverò lei con voce secca. 
La siepe di lauro dietro di loro ondeggiò selvaggiamente. Prima che potessero chiedersi cosa fosse stato, un boato di bottiglie rotte e rumore di vetro in frantumi li fece sobbalzare. 
Dietro di loro una saetta si arrampicava sull'altissimo abete. 
E alle sue calcagna, in una nuvola di latrati, un grosso labrador nero che finiva la sua corsa con le zampe piantate sul tronco e il collo minacciosamente teso verso la bestiolina che aveva preso a soffiare e miagolare nascosta tra i rami. “Gil!” sbottò Jan. “Sylene…” gli fece eco la fata. 
Restarono a guardare la scena con gli occhi sbarrati e il fiato in gola. 
Non soltanto i due guardiani si azzuffavano - era il caso di dirlo - come cane e gatto. Il ragazzo del baracchino era uscito con una grossa, minacciosa scopa. 
Anche Gil non doveva essersi aspettato tutto quell’interessamento. Si voltò giusto in tempo per vedere il ragazzo afferralo per il collare e trascinarlo sul retro. “Christine chiama la polizia!” disse mentre si assicurava con un’occhiata che nessun proprietario reclamasse l’animale. “Adesso te ne stai per un po’calmo qui.” Lo chiuse nello sgabuzzino mentre la cameriera si affrettava a prendere il telefono. 
Jan e Bree si guardarono senza parlare per alcuni lunghi secondi. Poi il sorrisetto sghembo del folletto accese nel cuore di Bree un terribile sospetto. 
“Non possiamo farlo”, sussurrò. 
Lui fece un largo, eloquente cenno di assenso, gli occhi verdi lucidi di emozione. “Oh, sì che possiamo”. Afferrò le mani della fata. Lei guardò verso le fronde alte dell’abete. 
Il gatto non aveva smesso di miagolare. Chiedeva aiuto. Anche da laggiù, Bree sentiva il grido disperato del Guardiano squarciare la mente. “Dice che se non la tiriamo giù di lì…”  
Jan le tappò la mano con il palmo. “Fra un po’arriveranno a salvarla. Non abbiamo molto tempo.” 
“Molto tempo per cosa?” Ma la fata aveva già in mente cosa stesse frullando per la testa del folletto. 
“Non fai altro che lamentarti. Dici che questo mondo è triste e cattivo. Che non fa per te. Ti farò cambiare idea, Bree! Quanto è vero che sono un folletto, ti darò un motivo per voler restare.” 
La fata inarcò un sopracciglio, come a dire che si trattava di un’impresa disperata. 
“D’accordo”, soffiò Jan, “e se proprio non riuscirò a farti restare, sono sicuro che quantomeno lascerai questa città con una lacrimuccia.” 
Bree avrebbe voluto protestare ed elencare uno a uno tutti i buoni motivi per i quali il folletto si stava cacciando nei guai. E per i quali non sarebbe riuscito a trascinarla con lui fino… 
Ma Jan l’aveva già afferrata per il braccio molto prima che lei potesse arrivare al secondo dei suoi buoni motivi.  I due corsero a perdifiato, costringendo coppiette innamorate a sciogliere frettolosamente il loro abbraccio, zigzagando tra carrettini e signori con pacchi e sacchetti, con la neve che pungeva il naso e l’aria fredda nella gola. 
“Che vuoi fare, Jan?” gridò la fata, cercando di fermare il berretto con una mano sulla testa, l’altra stretta in quella del folletto. 
“Vedrai!” Bree trattenne il respiro mentre sentiva la neve sfiorarle il viso in una carezza leggera, calda. 
Si fermarono, nasi all’aria e braccia spalancate verso il cielo. Minuscole piume volteggiavano nell’aria e cadevano silenziose, vorticando intorno agli abeti in una girandola che toglieva il fiato. 
La fata si guardò intorno preoccupata. Ma la gente camminava come nulla fosse. Soltanto alcuni bambini indicavano sopra di loro. Poi uno a uno, lentamente, anche i passanti cominciarono a chiedersi cosa fosse quella strana neve che non pizzicava e non bagnava i vestiti. 
Li avrebbero scoperti. Jan era proprio un pazzo, pazzo folletto. Bree lo guardò. Il cristallo verde delle pupille illuminato da bagliori di eccitazione tutt’uno con il sorriso disarmante. Le mille luci delle luminarie davano ai capelli, di solito neri come la notte, strani riflessi blu. Lui le strizzò l’occhio. E la guardò nel modo che riusciva a lui soltanto. 
E all'improvviso Bree decise che non voleva più pensare. Che si fidava di lui. In fondo, i Guardiani erano fuori gioco. Per un po’. 
Jan le sfiorò la guancia con un bacio. Così veloce e leggero che Bree si chiese se ci fosse stato davvero mentre lui la abbracciava. Come due ragazzi normali, soltanto più speciali. La neve tornò a cadere silenziosa e umida. 
“Guarda, Jan!” Risalivano lungo le vie del mercatino, tra le bancarelle dove si erano fermati soltanto qualche attimo prima. 
La fata indicava quella che vendeva gioielli, all'angolo. Dove avevano visto la bambina. Un signore si stava allontanando con il suo pacchettino, dietro il sorriso dell’ambulante. 
Poi si fermò. Sollevò la banconota. La guardò controluce. E ancora. La fece scorrere tra le dita. E si voltò a passo di carica verso il venditore. 
Altri, intorno a lui, si frugarono nelle tasche, sollevando le stesse banconote mentre qualcuno già richiamava il vigile all'angolo. 
L’ambulante si scusava, pallido per l’imbarazzo e la meraviglia. Controllava l’incasso, sfogliava banconote che…tra le sue mani diventavano carta. 
Bree guardò Jan come a chiedergli spiegazioni. Lui si strinse nelle spalle. La fata gli diede un buffetto e il folletto sentì il corpo armonioso e caldo di lei stringersi al suo fianco. Il contatto lo fece avvampare. 
Era tutto quasi perfetto, pensò. Il Natale, la neve, la gioia negli occhi dei bambini. Bree. 
Un ragazzo di gran fretta li urtò, avvicinandoli di più, la sua bocca contro le labbra morbide della fata, il loro aroma di cioccolato nel suo respiro. Bree si staccò con lo sguardo abbassato per l’imbarazzo. Lui le sollevò il mento, lentamente, sfiorandolo con cautela con le sue dita calde. 
“Ci sto riuscendo, Bree?” 
“Sei soltanto un pazzo folletto. E non voglio pensare a cosa succederà al nostro ritorno.” 
“Non pensarci, non ancora”. 
Bree era confusa e frastornata. Loro erano amici. Amici di sangue e avventure. Non aveva mai pensato a Jan come a… qualcos’altro. Era un folletto. Si conoscevano da quando non erano che due marmocchi. Ma una vocina sorrideva, stuzzicandole la pelle in un brivido che correva lungo la pelle. 
Jan si voltò verso il fruscio. Dagli abeti sbucò il ragazzo che li aveva urtati. Ora che lo aveva di fronte, Bree riuscì a riconoscerlo. Era lo stesso che aveva riso della ragazza alla bancarella del ristoro. Pallido come un cencio, si teneva le braccia strette sul ventre. Poi, uno a uno, uscirono gli altri tre. Le facce stravolte. 
“Che dici, c’era qualcosa di particolare nel vin brulé?” 
“Tu?” chiese Bree. “Pensavo fossi d’accordo con loro…”
Li lasciarono passare, i volti bassi. E Bree scoppiò in una risata. Jan non l’aveva mai vista così felice, così serena. E la musica che arrivava dalla pista del ghiaccio dall’altra parte del fiume si intonava alla perfezione con il suo sorriso, con la vivacità dei suoi occhi. 
Noleggiarono due paia di pattini, facendo la fila per il biglietto. Stringendosi nella ressa. Come le coppiette intorno a loro. Come due ragazzi normali. Con il naso ghiacciato e la pelle inondata di uno strano calore. 
Jan non sapeva pattinare. Ma si divertiva a far perdere la pazienza a Bree, che invece scivolava leggera. Il folletto ringraziò la sua pigrizia. Non aver mai imparato offriva un mucchio di vantaggi. Ad esempio potersi appoggiare a lei con la scusa di non riuscire a tenere l’equilibrio. 
E stringerla sotto gli occhi invidiosi dei ragazzi. 
Bree riuscì a liberarsi. Arrivò a metà della pista e ruzzolò all’indietro travolgendo una coppietta. Il ragazzo la aiutò a rialzarsi, togliendole gentilmente la neve di dosso con qualche colpetto di guanto. Sotto lo sguardo spazientito e imbronciato della sua ragazza che fulminò la fata con un’occhiataccia. 
Bree tornò dal folletto. Una smorfia severa sul volto e senza voltarsi mentre i due dietro di lei avevano preso a litigare. 
“C’è sempre il tuo zampino”, lo rimproverò. Questa volta non sembrava divertita. E neppure Jan aveva voglia di ridere. Ma non volle contraddirla. Si sedettero sulle panchine al bordo esterno della pista. Si slacciarono i pattini in silenzio. 
“É davvero ora di tornare, Jan. L’abbiamo combinata grossa per oggi.” 
“Credi che Sylene e Gil siano tornati in libertà?” sorrise. 
Lei alzò le spalle, in un gesto quasi indifferente. Poteva essere. Ma ormai era fatta. Non sarebbe cambiato nulla e la strigliata se la sarebbero presa comunque. E meritata. 
“Chissà perché stavano litigando.” 
“Forse si sono immedesimati troppo nella parte”, propose Jan, pensando alle forme che si erano scelti. 
Ma la fata sembrava pensierosa. Lui sospirò. E attese fino a quando gli occhi di lei non si alzarono su di lui. La fissò senza parlare. Poi le prese le mani. 
“Non sono stato io, Bree. Sei sbadata di tuo”, sorrise, “il ruzzolone…la caduta di prima…beh, hai fatto tutto da sola.” 
“Vuoi dire che non avevi intenzione di divertirti, usandomi per far ingelosire quei due?” 
Lui abbassò il volto, scosse la testa e tornò a guardarla con occhi all’improvviso dolcissimi. 
“Vuoi sapere la verità, Bree?” 
Lei annui. “Sono morto di gelosia!” sbottò lui arricciando il naso in una smorfia. 
Jan non era certo delle emozioni che attraversavano gli occhi violetti della fata. A dire la verità gli parevano immobili, quasi freddi. Provò a sbirciare tra i pensieri di Bree. 
“Ah ah”, lo fermò lei. 
“Mi stai facendo scudo?!” 
Lei alzò ingenuamente gli occhi al cielo. Sorrise. Jan pensò che era bellissima e che se non lo avesse fatto ora, ora che era tutto così perfetto, non sarebbe riuscito mai più. La avvicinò a sé e la baciò. Di un bacio vero, questa volta. Con tutto il sapore delle sue labbra e il profumo dei suoi capelli che accarezzavano il cuore.
Il mondo si fermò per un attimo. Non ci furono più musica né ragazzi che pattinavano, né la neve che soffiava morbida intorno a loro né il gelo. Non era la città. E anche la Foresta era un ricordo lontano. Sbiadito. 
Poi si allontanarono piano. Ma soltanto un po’. Gli occhi ancora fissi e increduli. 
Era cambiato tutto, ora. Non sarebbero stati amici. Mai più. Lo leggeva nel sorriso malizioso di Bree. 
La fata si accarezzò i capelli, cercando qualcosa sotto il cappuccio. Ne era certa: qualcosa era accaduto. 
Staccò l’orecchino delicatamente e lo tenne sui palmi aperti davanti a sé. Erano gli orecchini più scintillanti, perfetti e meravigliosi che avesse mai visto. Jan annuì. La fata lo strinse forte fino a fargli mancare il respiro. 
“Scommessa vinta, acidissima fata?” tossicchiò lui, cercando di riprendere fiato. Ma in realtà non ricordava più con chiarezza l’oggetto della loro scommessa. Forse che sarebbe riuscito a far piacere a Bree la città? 
A un tratto sembrava tutto talmente stupido. Bastava Bree. E la Foresta sarebbe stata di nuovo un posto interessante. 
“Credo di averla vinta io, pazzo Folletto”, ridacchiò la fata afferrandolo per la sciarpa e attirandolo dolcemente contro di sé. 
Anche da lì, in un angolino del ponte che attraversava il fiume, Gil e Sylene riuscivano a scorgere i profili vicini –troppo vicini- di Jan e Bree. 
“Lo sai che ci toccherà fare rapporto”, miagolò Sylene. 
Gil sbuffò. “Potremmo chiudere un occhio."
Sylene non rispose. 
“Piacciono anche a te, non è vero?” 
“Questo non c’entra nulla”, rispose lei acida. “Abbiamo un compito, noi.” 
“Però poi dovremmo spiegare che ci facevi tu su un albero e cosa ci facevo io rinchiuso in uno sgabuzzino.”
“Già…” rifletté lei, “imbarazzante. Molto imbarazzante.” Sospirò. “Se anche tu non continuassi a guardarti in giro…”
 “Sylene…” Gil cominciava a capire. “Gelosia?” 
“Direi di no, stupido Guardiano rimbambito. Ma ci farai scoprire… E non ho intenzione di trovarmi nei pasticci per colpa tua.” Gil la fissò dritta negli occhi. 
“Comunque sia”, tagliò corto lei sbattendo nervosamente la coda, “forse hai ragione. Ci converrebbe non dire nulla.” 
“Sì, se poi si sapesse che li abbiamo persi per un’ora…” mentì lui, cercando di nascondere il sorriso. 
“E che ti sei fatto accalappiare come un randagio…” 
“Troppo complicato, Sylene. Meglio chiudere un occhio.” 
“Troppo complicato. Meglio chiudere un occhio”, convenne lei. 
Ma la neve aveva un gusto più dolce e le luci sembravano a un tratto più vivide. Un posto strano, la Terra. Non se lo sarebbe mai aspettato, la Guardiana. Eppure aveva una magia forte e potente quel luogo. Una magia cui ancora, chissà perché, non riusciva a dare un nome…



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